Da Cicciolina al Savoia l’era dei candidati-oggetto


Questo editoriale, pubblicato il 29 aprile 2009, conteneva un’imprecisione: a seguito dell’elezione a deputato di Ilona Staller nel 1987 (elezione non prevista né tanto meno programmata dalla leadership radicale che pure l’aveva candidata), a rimanere escluso dal Parlamento, dopo il vorticoso e abituale gioco di opzioni fra candidati eletti in più di un collegio, non fu in quell’occasione Francesco Rutelli, che pure fu, come si legge nell’articolo, scavalcato nelle preferenze dalla Staller nella circoscrizione di Roma, ma il segretario nazionale radicale dell’epoca, che non era Rutelli ma Giovanni Negri.


Le candidature per le elezioni europee si stanno rivelando un banco di prora perla politica che ci aspetta nei prossimi anni. Il Parlamento europeo non eleggerà un governo, perché le opinioni pubbliche, che non ne sanno quasi nulla, sono diffidenti, e i governi statali approfittano della diffidenza per non farsi soffiare altre competenze. Un Parlamento dimezzato è adatto alla sperimentazione. Via libera quindi al tanto desiderato ricambio generazionale. Non più aspiranti burocrati di partito, ex capetti di assemblee, seriosi intellettuali, professionisti in pensione. Avanti il glamour, il nuovo, la bellezza, la nobiltà. A rappresentare l’Italia in Europa andranno principi e veline: a cominciare da Emanuele Filiberto, mancato erede al trono d’Italia.

Del resto non poteva continuare così. Per undici mesi all’anno, ogni anno, i cittadini consumatori ed elettori hanno sotto gli occhi forme umane esteticamente inarrivabili, quasi artificiali. È stato spesso accusato di questo, a torto, il capitalismo consumistico, ma la definizione di quei modelli - almeno di quelli maschili - risale piuttosto all`alba della civiltà occidentale, alla statuaria greca di Mirone, di Lisippo, di Prassitele. I modelli femminili hanno risentito di più del fluttuare dell’abbondanza o della scarsità del cibo nel corso dei secoli, ma si sono abbastanza stabilizzati, almeno nei periodi di benessere, da circa cent’anni.

Non si poteva continuare così, drogare il pubblico per undici mesi e sostituire poi improvvisamente quei modelli con le fattezze, di solito nella migliore delle ipotesi normali e perciò più che deludenti, di candidati e candidate alle elezioni selezionati con criteri improvvisamente dissonanti, che  ormai apparivano ai più incomprensibili e sorpassati.

L’avevano già capito i totalitarismi novecenteschi, che avevano fatto dell’estetica dei corpi un elemento centrale della nazionalizzazione delle masse e della propaganda politica. Ma in genere si trattava più dei modelli ideali di atleti, lavoratori, miliziani e soldati che dei capi.

Noi siamo soliti identificare quegli stereotipi estetici con il fascismo e (in forme perfino più inespressive) con il nazismo, ma nella Russia sovietica trionfava la stessa estetica, e, fatto meno noto, non rifuggiva dal servirsi dei medesimi stereotipi neppure la propaganda delle più sobrie socialdemocrazie nordiche.

Fra i capi politici del Novecento, forse solo Mussolini si era creduto fisicamente abbastanza dotato da potersela giocare in proprio. Anche perché all’epoca bastava poco, l’investimento (involontario) nel fitness era per lo più ancora roba da classi subalterne, e la chirurgia estetica al massimo cominciava appena a correggerei nasi più mostruosi.

Nel corso della cosiddetta Prima Repubblica il personale politico non ci pensava neppure, né del resto sarebbe stato all’altezza. I partiti, banali aggregati di interessi, aspirazioni, desideri, ideologie, e talvolta finanche di idee e di progetti, giocavano la loro propaganda su altri piani.

Perfino quando il Partito radicale candidò Cicciolina non lo fece pensando di sfruttare la carta della sua controversa avvenenza, ma con l’idea missionaria di stimolarne una conversione da donna-oggetto a portabandiera del femminismo. Invece, provocando la costernazione di chi aveva pensato di servirsene per una battaglia politica, fece breccia in un elettorato un po’ meno sofisticato, e scavalcò nelle preferenze, lasciandolo appiedato in quella legislatura, il segretario radicale di allora Francesco Rutelli.

Da una ventina d’anni ci è stato  spiegato che la politica contemporanea non ha più bisogno di discorsi complicati, ma deve basarsi sulla fiducia nelle persone. Anche le sorti di grandi paesi vengono facilmente affidate piuttosto a tizi in compagnia dei quali l’elettore medio pensa che sarebbe piacevole condividere una birra o una partita di calcio, che a leader noiosi o presuntuosi che mostrino di credersi più illuminati o saputi dei loro elettori.

Non sono forse sovrani gli elettori? Perché non dovrebbero sentirsi meglio rappresentati da personaggi capaci di incarnare i loro ideali estetici, i loro desideri di successo e di celebrità, e magari le loro pulsioni erotiche?

Ormai dobbiamo forse abituarci a due tipi di politici: da una parte quelli ultra specializzati, deputati a mediare nell’ombra fra interessi concreti in campi di cui sono i soli "esperti" del loro gruppo, e che indicano ai colleghi "peones", pollice levato o pollice verso, come votare su emendamenti incomprensibili ma destinati a fare la fortuna o la rovina di corporazioni contrapposte, e dall’altra uomini e donne oggetto, piacevoli o simpatici volti noti agli occhi degli elettori consumatori: e qualche ometto o donnina alle cui fattezze fisiche spesso incolpevolmente insignificanti specialisti della comunicazione politica cercano di far esprimere le "qualità eroiche" richieste per l’esercizio di un’improbabile leadership carismatica.

Se in Italia i requisiti richiesti per reggere un ministero sono già stati profondamente innovati, non stupisce che il trionfo di questa politica basata sulla leggerezza si celebri con le elezioni europee. I governi statali non vogliono mollare l’osso a un’Europa federale, né lo faranno finché i loro Paesi non si accorgeranno che 27 governanti di Stati nanerottoli contano ormai nel mondo globale quanto il Presidente di Anguilla o il Principe del Liechtenstein. Il miglior presidente della Commissione è, per i governi, quello che, come l’attuale, rinuncia preventivamente a ogni ruolo politico significativo.

Al Parlamento europeo vengono candidate così, più ancora che ai parlamenti statali, le celebrità televisive. Ai  corsi notturni accelerati per veline deputate, i partiti più seriosi rispondono candidando il volto noto del telegiornale. E il partito più tradizionalista di tutti candida il giovane principe Savoia, che, assicura il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, «andrà in Europa a difendere i valori che ci  stanno a cuore, l’identità cristiana e la famiglia».

Delle due, nel suo caso, sembrerebbe, l’una: o l’identità cristiana o quella della famiglia. Ma forse, più che alla memoria dell’avo scomunicato da Pio IX per esserne stato più volte preso arditamente a cannonate, il discendente pensa modernamente alle comparsate televisive di congiunti a lui molto più prossimi, occasionate dai matrimoni e dai funerali religiosi degli augusti parenti sparsi per l’Europa: quella che effettivamente conta ancora. Come richiamo turistico.

 
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