Secondo forum
di Critica liberale
Roma, 10
maggio 2008
Dopo
il diluvio.
Democrazia
liberale o democrazia simulata
Relazione
introduttiva di Giulio Ercolessi
«Non mi nascondo che il
bilancio della nostra
generazione è disastroso. Inseguimmo le
“alcinesche seduzioni” della Giustizia
e della Libertà: abbiamo realizzato ben poca giustizia e
forse stiamo perdendo
la libertà. Sarebbe da stolti truccare le cifre del conto
finale per farle
apparire in pareggio (…) Non c’è nulla
di più compassionevole di colui che non
si sia accorto di andare combattendo ed esser morto. Per chi
è stato condannato
dal tribunale della storia, il quale ha l’ufficio non
già di far vincere il
giusto ma di dare l’aureola del giusto a chi vince, non resta
altro tribunale
cui appellarsi che quello della coscienza. Di fronte al quale non
basta, per
farsi assolvere, l’essere rimasti fedeli a certi ideali.
Occorre anche avere
bene appreso quanto sia difficile e ingannevole, e talvolta inutile, il
mestiere di uomini liberi.»
Sono
parole di uno degli esponenti della cultura italiana più
diffamati dalla
ciarlataneria populista prevalente nell’Italia di questi
anni. Le scrisse
Norberto Bobbio nel 1970, nell’introduzione alla sua raccolta
di scritti su Carlo
Cattaneo, “Una filosofia militante”.
All’indomani della strage che avrebbe
aperto la porta agli “anni di piombo”, nel pieno
della crisi che aveva privato
il vecchio centrosinistra di ogni spinta riformatrice, mentre
l’impegno
politico diffuso fra i giovani che aveva alimentato
l’esplosione del ’68 stava largamente
indirizzandosi verso esiti ideologici prossimi alle ideologie
totalitarie del
‘900, il vecchio filosofo della politica azionista
– che fino alla sua morte
avrebbe poi accettato di essere il presidente onorario della nostra
fondazione –
non si nascondeva la distanza fra le promesse di rinascita civile degli
anni della
ricostruzione democratica del paese e la realtà di allora,
né le dimensioni
della sconfitta dell’“Italia civile”.
Bobbio
sarebbe tornato negli anni successivi, e con toni non meno amari, sugli
esiti
finali di quel degrado, esploso negli anni del berlusconismo, con gli
interventi appena ripubblicati in un volume della nostra collana di
“libelli”.
Oggi
quelle parole di Bobbio non rispecchiano più soltanto la
situazione oggettiva e
lo stato d’animo dei democratici laici della sua generazione,
o dei liberali, o
degli italiani appartenenti a tradizioni e correnti di pensiero
politiche
affini. Rispecchiano altrettanto bene le convinzioni di tutti coloro
che non si
rassegnano a trovare normale essere governati da uno che, chiamato a
testimoniare in un processo di mafia, ha scelto di avvalersi della
facoltà di
non rispondere: comportamento certo giuridicamente lecito per un
privato
cittadino nella sua situazione (indagato in precedenza nello stesso
procedimento penale, conclusosi con l’archiviazione della sua
posizione, non
essendo emersi indizi sufficienti a far proseguire le indagini entro la
scadenza dei termini), ma che in qualunque paese civile, e certamente
in
qualunque democrazia occidentale, avrebbe provocato
un’indignazione generale
seguita dalla morte politica istantanea e definitiva di qualunque uomo
politico. Così come nessun uomo politico occidentale sarebbe
mai potuto
sopravvivere a proscioglimenti da gravi imputazioni ottenuti ed
accettati come
conseguenza di prescrizioni (maturate magari grazie a un accorciamento
dei
termini votato dalla propria maggioranza parlamentare), di amnistia o
dell’abrogazione
legislativa della fattispecie delittuosa indicata nel capo di
imputazione. Né sarebbero
mai stati accettati la rivalutazione strisciante del fascismo storico
–
fenomeno ormai tanto largamente ammesso in Italia quanto inesistente
nel resto
del mondo civile –
le esplicite strizzate
d’occhio al razzismo, l’aperta omofobia, il
clericalismo estremista che
caratterizzano l’attuale destra italiana.
Berlusconi
è invece sopravvissuto, e una maggioranza relativa di nostri
concittadini
elettori ha anche ritenuto, nella propria saggezza, di reinvestirlo del
governo
del paese. Questa vicenda, inverosimile in ogni altra regione
d’Europa, non è
che un tassello di una lunga teoria di passi verso il degrado civile
cui la
maggioranza dei nostri concittadini sembra indifferente e perfino
ignara. Anche
fra coloro che non hanno votato per questa destra extraeuropea, e
soprattutto
fra gli appartenenti alla dirigenza del Pd, sono sempre più
numerose le voci di
chi ci esorta a chiudere con le contrapposizioni del recente passato
(ottusamente
confuse con altre, proprie di un passato più lontano, ben
più orrendo ma forse
meno fangoso del presente) e a realizzare finalmente, con questi
avversari, una
matura democrazia dell’alternanza. Anzi, si considera un
passo avanti la
“semplificazione” del sistema politico che sta
riducendo le alternative a due
soltanto: la coalizione berlusconiana e il Pd.
L’inverosimile
coalizione berlusconiana, il confronto politico ridotto senza residui a
puro
marketing, la demagogia populista come copertura per le malefatte della
consorteria
e come collante del clericalismo estremista, della xenofobia,
dell’omofobia,
del neoprotezionismo, dell’eurofobia, della rivalutazione del
fascismo storico,
la condiscendenza mai negata ad alcun interesse corporativo, sarebbero
nient’altro che la versione italiana di una normale destra
conservatrice
europea, appena un po’ carente in fatto di bon ton,
per cui sarebbe naturale e perfino
doveroso intrattenere con lei gli stessi normali rapporti, e non solo
in
termini di galateo costituzionale: Berlusconi, Bossi, Fini, Previti,
Dell’Utri,
Gasparri, Calderoli, uguali o affini a Merkel, Sarkozy, Rajoy, Cameron,
Balkenende o perfino al liberale Verhofstadt. Gli antichi militanti
della
vecchia e della vecchia nuova sinistra, specie quelli che hanno oggi
dai cinquant’anni
circa in su, convinti un tempo di essere i depositari della
moralità pubblica
in quanto organici rappresentanti della classe interessata al
superamento della
esausta e organicamente corrotta società capitalistica, non
hanno mutato nel
profondo tanto quanto appare la loro opinione sul capitalismo, sul
mercato,
sull’Occidente, ma continuano, almeno nella parte rettile del
loro cervello, a nutrirne
la stessa idea. Ora stanno dall’altra parte: ma spesso, anche
quando affermano
di voler fare i conti con il liberalismo, sembrano avere in mente la
caricatura
negativa che se ne facevano da ragazzi, non dissimile del resto dal
preteso
“liberalismo” di Berlusconi (altra barzelletta
accettata solo da politica e
media italiani), pronti a trarne i relativi vantaggi.
Orfani
dell’appartenenza a una cultura totalitaria che solo in pochi
hanno saputo o
tentato di rimpiazzare, sembrano incapaci di
un’interpretazione della realtà
sociale che preveda esiti diversi dalla fotografia
dell’esistente, che non
colgono come il frutto del quindicennale impegno militante e
propagandistico,
quotidiano e martellante, di questa aliena destra italiana, e si
offrono come
ceto politico desideroso di interpretarla, magari con più
efficienza e con la
temperata e cauta promessa di poterlo fare con più
correttezza degli avversari.
E
se un tempo per evitare di farsi coinvolgere, finché fosse
possibile, nelle
battaglie laiche, si richiamavano all’insegnamento di Gramsci
interpretato alla
luce del cinismo sovietico di Togliatti, oggi, in un’Italia
ormai pienamente
secolarizzata, per giustificare la fusione nello stesso partito con i
resti
della vecchia Dc , rimasticano quell’antica analisi di una
società largamente
contadina e pretendono di interpretare la modernizzazione sociale ed
economica
dell’Italia esentandosi da ogni parallela modernizzazione
civile, perché, perse
l’antica fede e l’antica appartenenza, sono
soggiogati dallo spettacolo della titanica
resistenza e dall’insaziabile ingordigia delle strutture ben
diversamente vitali
del cattolicesimo italiano. Il quale si sa minoritario e socialmente
ormai quasi
ininfluente, ma cui non par vero di poter trarre profitto – e
quale immenso
profitto e ricchezza, e insperato prestigio –
dall’avvenuto annichilimento
degli antichi avversari.
Così
il centrosinistra italiano – e niente affatto soltanto le sue
frange clericali
estremiste – ha oggi, su tutte le questioni etiche
controverse in cui le
ragioni della libertà, della dignità e
dell’autodeterminazione degli individui
si scontrano con le pretese autoritarie e le tracotanti e spesso
inumane
imposizioni della gerarchia cattolica, posizioni che si situano sempre
e
inequivocabilmente alla destra non solo di quelle dei partiti del
centrosinistra negli altri paesi dell’Europa occidentale, ma
di quelle di tutte
le destre di governo, attuali e potenziali, di tutti quei paesi,
sostanzialmente senza più eccezioni.
Quel
che è perfino peggio, i vertici del Pd si offrono
all’indecoroso schieramento
avversario come partner per la stessa riscrittura proprio delle regole
costituzionali, come se ad esse – magari anche meritevoli di
un consensuale
aggiornamento in circostanze normali – potesse davvero essere
attribuito il
miserevole stato di degrado della Repubblica, e come se si trattasse di
questioni di minor conto del governo quotidiano del paese.
Mangiate
questa minestra o saltate da questa finestra. Questa
l’entusiasmante proposta fatta
dal Pd agli elettori: una proposta che ha probabilmente avuto
l’accoglienza che
purtroppo si meritava. La maggioranza degli italiani ha forse, di
nuovo, il
governo che si merita, come disse a suo tempo Giovanni Giolitti. Ma
certo è soprattutto
la classe dirigente – non solo la classe politica –
di questa Italia
invertebrata (come Ortega definì la triste Spagna del suo
tempo), una classe
dirigente che non ha saputo pretendere di meglio, ad avere oggi e il
governo e
l’opposizione che si è meritata.
Avevamo
scritto per anni che solo il carattere alieno della destra italiana
poteva
giustificare un’alleanza come quella che fino a qualche
settimana fa costituiva
il centrosinistra italiano. Né il Pd né la
sinistra onirica ora scomparsa dal
Parlamento potevano però avere e condividere questa
consapevolezza, privi
com’erano entrambi, in misura e per ragioni diverse, di
un’idea non
raffazzonata di che cosa debba essere una moderna democrazia liberale.
Per
questo entrambi si sono dimostrati incapaci di cogliere il carattere
peculiare,
pericolosamente regressivo, primitivo, appunto alieno, del
berlusconismo: per
il primo l’alleanza era semplicemente l’espediente
aritmetico necessario per conquistare
la maggioranza; per l’altra il berlusconismo da avversare non
era addirittura altro
che una versione radicale del “liberismo selvaggio”
proprio della
globalizzazione – quando invece la destra italiana si
è dimostrata totalmente
estranea ad ogni forma di liberismo, “selvaggia” o
temperata che fosse, sola
stabile coalizione alla destra del centro che abbia governato in Europa
da
trent’anni a questa parte a non avere effettuato in
un’intera legislatura
neppure una liberalizzazione o una privatizzazione di rilievo, e
combattuto
anzi nella legislatura successiva ogni pur modesta iniziativa del
centrosinistra che muovesse in tale direzione.
Certo
non si poteva, dopo due anni di convivenza rissosa, riproporre la
stessa coalizione
che aveva scelto l’autoaffondamento. Ma, se
l’accordo fra Pd e sinistra onirica
era improponibile, nessuna logica che non fosse quella
dell’annientamento della
concorrenza nel proprio campo, come esigenza preminente su ogni altra,
poteva
giustificare il diniego dell’apparentamento con una lista
radicale e una
socialista che consentisse agli elettori desiderosi di vivere in una
normale
democrazia laica e liberale europea, avversi al berlusconismo ma
refrattari
all’intruppamento in una coalizione composta essenzialmente
da un ceto politico
di ex democristiani e di ex comunisti, di esprimere un voto capace di
rappresentarli nel sistema politico italiano.
La
destra italiana corrisponde, negli altri paesi europei, a sparuti
gruppi
lunatici, sistematicamente scansati dalle normali forze del
centrodestra. Il Pd
raccoglie al suo interno orientamenti e sensibilità che
rappresentano più o
meno l’intero spettro politico di un paese normale, salvo che
per il suo
orientamento clericale, sfrenato in alcune delle sue componenti e non
controbilanciato dalla risicata rappresentanza radicale (e per
l’assenza di una
sinistra massimalista). Cementificare oggi, con apposite riforme
elettorali o
addirittura costituzionali, un sistema politico capace solo di queste
due
alternative significa non solo escludere dalla rappresentanza politica
la parte
più moderna, europea, laica e liberale
dell’elettorato, ma impedire qualunque futura
modernizzazione democratica del paese.
Si
può a lungo discutere sui pregi e sui difetti dei sistemi
elettorali e sulle
forme di governo (e non è obbligatorio farlo nel modo
futile, superficiale, schematico,
disinformato e spesso ottuso tipico del conflitto politico-televisivo
italiano
e dell’infimo livello di questa classe politica
complessivamente considerata –
salve, com’è naturale, eccezioni tanto luminose
quanto più rare, ma ormai meramente
individuali). Ma non si può discuterne come se la
qualità degli ipotetici concorrenti
fosse irrilevante, anziché, come inevitabilmente
è, determinante.
Invece
il ceto politico smarrito, arrogante e sconfitto, che guidandoci con
decisione alla
disfatta ci ha appena regalato cinque nuovi anni di vergogna e di
degrado civile,
si propone ora di concorrere con la nuova maggioranza a rendere il
duopolio
definitivo e altrettanto inattaccabile quanto lo è (salvo
eventuali interventi
giudiziari interni o europei), grazie anche alla pluriennale
complicità talvolta
inerte e talvolta fattiva del centrosinistra, la satrapia televisiva
regalata a
suo tempo a Berlusconi da una politica insipiente. E già si
propone, senza che
vi sia di mezzo nessuna esigenza di stabilità governativa da
salvaguardare, di
spazzar via ogni possibile concorrenza presente e futura impedendone la
sopravvivenza perfino a livello europeo, con una modifica della
relativa legge
elettorale. Non vi è giustificazione, se non quella di
garantirsi coattivamente
per legge un artificioso monopolio, irrispettoso del pluralismo
politico e
culturale del paese.
All’attuale
degrado italiano, che si inserisce nel contesto di un generale declino
dell’Europa e del progetto europeo, si è giunti
anche perché all’Italia manca
un establishment, non solo politico, capace di farsi carico delle
proprie
responsabilità storiche.
Le
identità collettive non sono mai statiche e immutabili
attraverso i secoli,
come è portata a ritenere un’opinione pubblica che
anche il tracollo delle
strutture educative e dell’istruzione pubblica ha privato di
qualunque
consapevolezza storica, non solo negli ambienti più
socialmente svantaggiati: già
un europeo della seconda metà del XIX secolo avrebbe trovato
del tutto
sorprendente che Fichte avesse
avuto
ragione di lamentarsi della scarsa attitudine alle armi dei tedeschi
suoi
contemporanei. Ma è anche vero che spesso le culture
nazionali hanno tratti
caratteristici di lunga durata e che per promuoverne
l’evoluzione sono
necessarie prese d’atto realistiche e non offuscate
dall’indulgenza o dalla corrività
così frequenti quando gli italiani parlano di se stessi.
Ricercando
le remote radici storiche e antropologiche dell’arretratezza
civile degli
italiani, che ancora non si era manifestata in tutta la sua devastante
portata,
più di vent’anni fa l’antropologo Carlo
Tullio-Altan aveva centrato la sua
attenzione sul momento fondativo della modernità europea. E,
sulla scorta degli
studi di Ruggero Romano e di Alberto Tenenti sul Rinascimento, era
risalito
alle ragioni culturali del mancato distacco italiano dal mondo
premoderno
(oltre che della mancata Riforma), proprio nel momento culminante e
terminale del
primato economico, artistico e culturale dell’Italia alla
fine del Medio Evo.
Tullio-Altan
citava proprio uno dei numi tutelari del Rinascimento fiorentino, il
grande
umanista Leon Battista Alberti, nel testo scritto per servire quasi da
manuale
educativo per le classi dirigenti del suo tempo, i “Libri
della Famiglia”
(1433-1441): «Da natura l’amore, la
pietà a me fa più cara la famiglia che cosa
alcuna (…) E per reggere la famiglia si cerca la roba; e per
conservare la
famiglia e la roba si vogliono amici, co’ quali ti consigli,
i quali t’aiutino
sostenere e fuggire avverse fortune; e per avere con gli amici frutto
della
roba, della famiglia e dell’amicizia, si conviene ottenere
qualche onestanza e
onorata autorità». Non però
perché le sorti individuali possano trarre qualche
utilità dalla prosperità pubblica o viceversa, ma
solo per acquisire e
mantenere il censo acquisito con la “roba”. Di
più non serve, se non per
questo: «Eccoti sedere in ufficio. Che n’hai tu
d’utile se none uno solo:
potere rubare e sforzare con qualche licenza». Per il resto,
rivestire cariche
politiche significa solo «chiama(re) onore essere nel numero
de’ rapinatori (…)
convenire e pascere e servire agli uomini servili».
Conclusione: «È si vuole
vivere a sé, non al comune, essere sollicito per gli amici,
vero, ove tu non
interlasci e’ fatti tuoi, e ove a te non risulti danno troppo
grande».
Sempre
in quel libro, Tullio-Altan mostrava come opinioni analoghe fossero
perfettamente rispecchiate nei coevi proverbi popolari di diverse
regioni
italiane, fornendo il quadro impressionante di un’omogenea
arretratezza di
popolo ed élites.
Ne
emergeva, come e più che nel Leopardi del
“Discorso sullo stato presente de’
costumi degli Italiani” (1824), nient'altro che il
ritratto della classe
dirigente dell’Italia
berlusconiana,
e al tempo stesso di quella, altrettanto
priva
di identità civile, dei suoi ceti svantaggiati.
Ma,
come ha scritto Tommaso Padoa-Schioppa, «In una democrazia
non vi sono solo
compiti e diritti del popolo; vi sono anche compiti e doveri delle
élites,
senza il cui corretto esercizio la democrazia stessa non produce
buongoverno e
forse neppure sopravvive.»
A
questo, infatti, crediamo si sia ormai arrivati. In questi anni abbiamo
sempre
cercato di testimoniare e dare un piccolo ma significativo canale di
espressione e di presenza civile a quella parte della cultura politica
italiana
che si vuole radicata nella modernità liberale, nella
tradizione laica illuministica
e risorgimentale, nel federalismo europeo, nella lotta ai totalitarismi
e agli
integralismi e per l’ampliamento dei diritti civili. Ma non
ci è certo possibile
supplire in misura significativa all’inerzia di un paese
intero e della sua
classe dirigente.
Solo la capacità e la volontà di non nascondersi il livello del degrado e la gravità dei rischi può forse stimolare uno scatto di resipiscenza capace di riaprire nuove prospettive a un paese imbarbarito, sempre più screditato e sull’orlo di un irreversibile declassamento.
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