In memoriam, prof. Lucio Ercolessi (1926 - 2019), Renata Molinari
Ercolessi (1924 - 2021).
Il prof. Lucio Ercolessi, medico pneumologo, Libero Docente in Anatomia Umana Normale, imprenditore sanitario, è scomparso il 20 novembre 2019. Di seguito la commemorazione pronunciata dal figlio Giulio nel funerale laico tenutosi il 29 novembre successivo, prima della dispersione delle ceneri nel mare del golfo di Trieste, in adempimento della sua volontà.
Il 28
settembre 2021 si è spenta anche Renata Molinari
Ercolessi. Qui
la commemorazione pronunciata dal
figlio Giulio nel funerale laico tenutosi il 7 ottobre successivo.
Se
mio papà se ne fosse
andato soltanto sei anni fa, quando aveva 86 anni, si sarebbe potuto
dire che,
nella nostra epoca, può capitare qualcosa che in ogni epoca
precedente sarebbe
stata considerata assurda: che oggi può accadere di morire
prematuramente anche a
86 anni.
Fino
a quell’età la
vecchiaia lo aveva largamente risparmiato. A questo riguardo usatogli
dalla
natura aveva probabilmente finito per abituarsi, e, forse, noi tutti
con lui.
Tanto più sembrava che gli apparisse, e anche a molti di noi
è forse sembrato, sorprendente,
inatteso e quasi inammissibile il declino fisico di questi ultimissimi
anni e
mesi.
Perfino
la scomparsa
improvvisa e del tutto inaspettata di mio fratello, quindici anni fa,
che lo
aveva certamente cambiato, non ne aveva spento una volontà
di vivere fino in
fondo ogni momento della propria vita, con
un’intensità, con una convinzione,
con una persuasione refrattaria a qualunque retorica –
perfino alle retoriche,
nel senso corrente del termine, che si sarebbero potute ritenere in
sintonia
con la sua visione del mondo – e con un ottimismo vitalistico
capace di vincere
ogni illusione e ogni delusione, un ottimismo e un entusiasmo che io
credo di
non avere mai vissuto in quella misura, neppure da adolescente.
Non
così lui. Benché
privo di soverchie illusioni sulla natura degli uomini, e incredulo
sulla
capacità degli individui di poter influire sulla storia nel
suo farsi, il suo
ottimismo e la sua vitalità avevano trovato radici e
motivato un impegno
intenso, e lungo una vita intera, nella professione, nel lavoro, nella
famiglia,
e anche nelle passioni del tempo libero.
Quando
ancora insegnava
all’Università, la sua giornata di lavoro iniziava
ogni giorno uscendo di casa
prima delle 7 e mezzo e terminava rientrando dopo le 7 e mezzo di sera.
Di
solito teneva lezione all’Università nel primo
orario disponibile (e tenete
conto che non esisteva ancora la facoltà di Medicina a
Udine: la cosa non sarà
stata troppo gradita, immagino, agli studenti friulani pendolari):
perché, dopo
l’Università, nei diversi periodi,
c’erano l’INAM, il Consorzio antitubercolare
della Provincia, nei primi anni il suo ambulatorio privato, impegni
duraturi o
saltuari in medicina del lavoro e dello sport. Il pranzo mai a casa ma
sempre a
Aurisina, nel sanatorio, poi casa di cura, che è stato il
suo primo luogo di
lavoro, all’inizio a fianco dello “zio”
Adolfo che di quel sanatorio era stato il
fondatore assieme ad altri medici triestini. Adolfo in
realtà era il cugino
primo di suo padre Umberto, mio nonno, ma per lui era talmente uno zio
che per
decenni io non ho avuto dubbi che si trattasse del fratello di mio
nonno.
Fin
dall’inizio, alla
professione di medico si era aggiunta quella di imprenditore in campo
sanitario, accanto allo “zio” e a un gruppo di
colleghi con i quali, e con i
cui figli e discendenti, ha contribuito a sviluppare, a creare o a
fondare
aziende destinate a restare e a consolidarsi attraverso i decenni:
oltre alla
Pineta del Carso, il COF di Lanzo d’Intelvi in provincia di
Como, il coraggioso
investimento a Eboli nel 1957 che è oggi il Campolongo
Hospital, il Policlinico
San Marco di Mestre. Ha rivestito varie cariche anche
nell’Associazione
Italiana Ospedalità Privata, ospedalità privata
nel cui ruolo, come pilastro
fondamentale e
indispensabile di un sistema sanitario universale ma anche
economicamente sostenibile,
fortemente credeva.
Eppure,
a dispetto
dell’evidenza, non avrebbe mai pensato di autodefinirsi,
anche, imprenditore.
Avesse avuto riferimenti culturali o uso di retoriche diversi da quelli
che
erano i suoi, avrebbe certamente preferito il titolo di
“operaio nella vigna”
delle imprese di cui era fra gli amministratori: affermato
professionista,
docente universitario, e amministratore amministratore delegato o
presidente
nel tempo di diverse società per azioni anche di dimensioni
non sempre proprio
trascurabili, non ha mai voluto considerarsi parte della classe
dirigente del
paese. E
non per disprezzo, ma per quel radicato scetticismo nei confronti della
vita
pubblica – e non solo della vita politica – che
è stato fin dagli anni della
ricostruzione e della rinascita economica dell’Italia,
cioè negli anni della
sua formazione professionale, la paradossale cifra comune di tanti
intraprendenti protagonisti di quella stagione.
Lontanissimo
dalla
politica attiva, in politica mio papà non aveva certo quel
che si dice
un’inclinazione “progressista”, era
piuttosto un conservatore moderato, segnato
in gioventù, come tanti nostri concittadini, dalle tragedie
e dagli scontri che
hanno contrassegnato il Novecento a Trieste. Il suo scetticismo civile
non
faceva eccezioni neppure nei confronti del mio passato impegno politico
liberalradicale, che ha sempre rispettato, ma che credo trovasse un
po’
indecifrabile, di incerta e problematica classificazione, vagamente
esotico anche ai suoi occhi come a quelli della grande maggioranza
degli italiani. Quanto a
se
stesso, del resto, non aveva neppure lontanamente preso in
considerazione le
offerte di candidatura politica che qualche anno fa non gli erano
mancate. Considerava
un’ipotesi del genere alla stregua di una facezia.
Era
però anche orgoglioso
di non avere neppure preso in considerazione le velate e ripetute
raccomandazioni, ricevute dalla politica quando lavorava al Consorzio
antitubercolare, di non enfatizzare la scoperta, credo già
negli anni ’70, dei
primi casi di tumore alla pleura causati dall’esposizione
professionale
all’amianto.
Moderato
nelle sue
simpatie politiche, non era però affatto, come tanti oggi,
in
questa stagione di
tramonto dell’Occidente e di ripudio della nostra
modernità, un
tradizionalista, un passatista, o un nostalgico del buon tempo antico e
della
sua civiltà premoderna. Al contrario, al valore della
modernità, alle
potenzialità del progresso scientifico e tecnologico, non
solo in campo medico,
credeva profondamente e ne era entusiasta. E non era soltanto una
necessità
imprenditoriale. In questo, era anche lui un figlio della
modernità occidentale,
che io considero la mia patria. Aveva imparato verso gli
ottant’anni a usare
quotidianamente il computer e Internet, come perfino qualche mio quasi
coetaneo
si ostina ancor oggi a rifiutarsi di fare.
Ed
era anche il figlio
di una città che, nella sua classe dirigente italiana, era
stata, prima dei
rimescolamenti del dopoguerra, tranquillamente, pacificamente,
rispettosamente,
ma anche molto precocemente e profondamente, secolarizzata. Gli piaceva
raccontare
che dopo il funerale di mia nonna, il prete, suo buon conoscente, che
lo aveva
celebrato, perché così si usava, ma senza anche
dire la messa, gli
aveva detto: “Professor,
mi e lei
adeso dovemo propio vederse”. E diceva di
avergli risposto:
“La gà
bisogno, cossa no la sta ben?”. Forse non
sarà andata proprio
così, ma quell’aneddoto rappresentava
piuttosto bene il suo punto di vista.
Per
molto tempo è stato
difficile per me capire da dove venisse questo mix di moderato
conservatorismo
civile e di entusiasmo illuministico per la modernità
– anche in qualcuno dei suoi aspetti corrosivi –
che
difficilmente
avrebbe potuto assorbire nella sua famiglia di origine o al liceo
Petrarca
frequentato nei primi anni ’40: una visione del mondo che io
credevo essenzialmente
plasmata sulla base dell’etica medica del tempo della sua
formazione. La chiave
per una spiegazione meno superficiale, che lui non mi aveva mai
esplicitata, mi
è stata forse data
da un mio amico studioso della storia delle università
italiane nel Novecento.
In quella facoltà di Medicina
dell’Università di Padova, frequentata da mio
papà come dalla gran parte dei medici triestini fino alla
fondazione di una facoltà
di Medicina nella nostra Università, sarebbe
sorprendentemente sopravvissuta fino
agli anni ’40 e ’50 anche una scuola di indirizzo
prettamente positivistico, passata
indenne attraverso i decenni dell’egemonia di orientamenti
culturali e
filosofici affatto differenti.
Non
mi risulta che mio papà abbia mai successivamente coltivato
specifici interessi in campo filosofico, e sarebbe probabilmente il
primo a farsi beffe di queste mie elucubrazioni. Io però sono
convinto che, se effettivamente era quello il clima che si respirava
allora nella facoltà di Medicina padovana, l’assorbimento
di quella
matrice positivista, che oggi, in tempi di rinascente oscurantismo
antiscientifico e di pretese medicine tradizionali o alternative,
qualcuno
definirebbe sprezzantemente “scientista”,
dia ragione tanto di un certo suo
scetticismo antropologico quanto della sua personalità
profondamente
antiretorica e della profonda serietà e concretezza cui era
ispirata la sua
visione del mondo, totalmente scevra da illusioni ma consapevole
all’estremo
dei propri compiti, e della propria professione / vocazione.
La
professione di
medico, l’insegnamento universitario – da
assistente fu uno dei primi quattro o
cinque docenti del primo anno accademico della Facoltà di
Medicina
dell’Università di Trieste alla sua fondazione nel
1965 – e, sempre più nel
corso degli anni, l’impegno per la crescita e lo sviluppo
delle case di cura, sono
stati per mio papà una ragione di vita fino
all’ultimo. È stato solo con grande
dolore che, di fronte all’evidenza, ha preso
l’iniziativa di dimettersi
dall’ultima carica sociale che ancora rivestiva, proprio e
solo negli ultimi
giorni della sua vita, quando ormai era ricoverato in terapia intensiva
nell’Unità Coronarica di Cattinara. Ma solo poche
settimane prima aveva tenuto
a partecipare, da vicepresidente ancora in carica, all’ultima
assemblea sociale
della storia della Pineta del Carso, quella in cui è stata
ratificata la sua fusione
con la Salus.
Il
matrimonio dei miei
genitori ha avuto la durata, oggi quasi mirabolante, di 68 anni. Sono
stati
assieme fino all’ultimo, lo scorso mercoledì 20,
quando da Cattinara, ormai
senza più speranza di guarigione, era rientrato –
da ricoverato, come negli
ultimi mesi – a Pineta, in quella che è stata la
sua seconda casa per
settant’anni.
Scherzando
ma forse non
troppo si diceva qualche volta in famiglia che uno dei segreti di
questa unione
di così rara solidità e durata era stato anche il
suo assorbente impegno nel
lavoro: quando per decenni si esce di casa alle 7 e mezzo e si rientra
alle 7 e
mezzo di sera ci si trova un po’ come in quelle unioni a
distanza in cui si
desidera così tanto rivedersi e ritrovarsi che non
c’è spazio per il logorio
della routine.
In
realtà il tempo
libero è sempre stato per mio papà altrettanto
intenso quanto quello di lavoro.
Dopo una cena veloce, quasi sempre, per anni, c’era posto per
la serata di
bridge, con la coppia degli amici del lunedì, di quelli del
martedì, del
mercoledì, del giovedì. E il venerdì,
di primo pomeriggio, la partenza per il
weekend, in barca a vela in estate e autunno e a sciare in inverno e
primavera;
qualche viaggio in macchina con amici, spesso in Toscana, nei weekend
dei brevi
periodi di intermezzo. In agosto la crociera in Dalmazia, sempre la
stessa per 47
anni di fila, ma sempre attesa e vissuta con lo stesso entusiasmo.
C’è
un episodio che
dipinge perfettamente la sua sete inesausta di sfruttare
così intensamente ogni
momento della vita, anche nel tempo libero. Che cosa fa una coppia di
coniugi ottantenni o quasi che si sveglia a Cortina di sabato sotto una
nevicata che
impedisce di sciare? Una passeggiata o un po’ di shopping, si
dirà. No. Mio papà,
che, all’opposto di me, amava molto guidare, decise che
sarebbero partiti quel
sabato da Cortina per visitare una mostra: a Ferrara. Per ritornare poi
la sera
stessa a Cortina, poter sciare così tutta la domenica, e
rientrare come sempre a
Trieste la sera, fermandosi a cena, come sempre, lungo la strada.
L’invecchiamento
lo ha
colpito molto tardi nella vita, ma, figlio fino in fondo anche in
questo della
nostra modernità, non ci si è per nulla adattato
docilmente o senza soffrirne.
Quando i propri amici più cari sono tutti o quasi tutti
coetanei, e compagni di
scuola o di università, e si vive in buona salute e a lungo,
almeno nel tempo
libero si finisce per restare sempre più soli,
perché gli amici scompaiono, in
un modo o nell’altro, prima: così sono dapprima
finite le serate di bridge,
sostituite malinconicamente dalla televisione. A dire il vero
malinconicamente lo dico
io, ma
mio papà è stato, letteralmente fino al suo
ultimo giorno, un telespettatore
accanito e convinto.
Ma
ha potuto continuare
a praticare lo sci alpino fino a 84 anni, a condurre praticamente da
solo una
barca a vela di 35 piedi fino a 86. Ha cercato di convincersi di aver
dovuto poi
smettere solo perché mia mamma non sarebbe più
stata in grado di seguirlo. È
stato molto peggio dover prendere atto delle crescenti
difficoltà motorie di
mia mamma, che pure, anche lei, a 95 anni è ancora oggi
lucida. E poi rinunciare
a guidare l’automobile, che per lui, come per molti della sua
generazione, era
sinonimo di libertà e di indipendenza molto più
che di ingorghi o di
inquinamento. Ci sono voluti tre incidenti in due anni per convincerlo:
l’ultimo, che avrebbe potuto facilmente costargli la vita,
senza il minimo
danno fisico solo per un caso davvero molto molto fortunato. Mi
è rimasto il
dubbio che, se non si è trovato un medico disposto a non
rinnovargli la
patente, lo si dovesse alla riluttanza di molti di loro a farlo nei
confronti
del proprio vecchio professore.
Ha
avuto una vita
piena, intensissima, lunga, lucida fino alla fine. Eppure non
è affatto morto,
come gli antichi patriarchi, “sazio di anni”. In
questo davvero uomo immerso
nella nostra ipermodernità, fin quasi all’ultimo
avrebbe voluto, quasi preteso,
di vivere più a lungo, di poter dare ancora il suo
contributo alla vita delle
sue società, di esserci vicino. Solo all’ultimo si
è dato per vinto, e senza
essere ancora per nulla appagato di tutto quel che ha fatto e di tutto
quel che
ha dato.
Eppure
per chi resta,
anche per chi, come me, ha sempre coltivato piuttosto un tendenziale
pessimismo
naturalistico e ancor più un pessimismo storico di fondo che
a lui era estraneo
ma che la temperie di questi anni purtroppo avvalora, averlo avuto come
padre è
la testimonianza che non sempre e non necessariamente la vita
è per tutti l’ombra
che cammina o il povero attore che strepita per il tempo che gli
è concesso, ma
che, almeno per qualcuno, più fortunato o più
capace di coltivare con
persuasione e con amore il proprio giardino, può anche
essere un’impresa
sostanzialmente fortunata.
Chi
non trova buone
ragioni per illudersi o credere o sperare in resurrezioni o rinascite
celesti o
terrene può solo sopravvivere in quel che rimane della sua
opera, e nella
memoria di chi lo ha conosciuto amato e stimato. Sono certo, come so
che certamente
lo siete anche voi, che mio papà resterà vivo
ancora molto a lungo in quel che
ha contribuito a costruire, e nella memoria e nella forte
“eredità d’affetti” che lascia a tanti, amici,
colleghi, consoci,
collaboratori, pazienti, ex allievi, conoscenti, non solo a Trieste,
non solo ad
Aurisina, ma anche a Mestre, a Campolongo, a Lanzo d’Intelvi.
Renata Molinari
Ercolessi (1924 - 2021)
“Vivi
appartato”: per mia mamma
questa antica formula non aveva a che fare con l’esortazione
dei filosofi, le
veniva proprio naturale. Era un atteggiamento talvolta un po’
incomprensibile
per chi come me ha sempre vissuto sentendosi profondamente e
irrimediabilmente
parte, e finché possibile parte doverosamente attiva, nel
farsi della storia
che ci è toccata in sorte. Ma ho sempre avuto
l’impressione che lei, che pure
aveva letto avidamente quasi tutto il meglio della letteratura
occidentale degli
ultimi due secoli e tanta narrativa contemporanea, non potesse o
volesse neppure
riconoscere di vivere in una storia e in un contesto dati.
Così, dava spesso
l’impressione di considerare scontate o
“naturali”, mai problematiche o
influenzate dalle contingenze, tutte le sue scelte di vita e tutte le
sue
convinzioni.
Era
certo, soprattutto, questione di
carattere. E aveva anche sempre vissuto all’interno di una
cerchia di amiche e
di amici, tutti o quasi coetanei, tutti o quasi triestini, tutti o
quasi ex
compagni di scuola o di università. Era quello, con la
famiglia, il suo
microcosmo, per decenni immutabile, all’interno del quale
soltanto sembrava
sentirsi davvero a suo agio. Un microcosmo del quale – mi
è stato fatto notare
in questi giorni dal figlio di un’altra coppia di quel gruppo
di amici – era
ormai l’ultima sopravvissuta. Tollerava a fatica tutto quel
che potesse perturbare
quel microcosmo, e
l’inevitabile fluire
del tempo, dell’esistenza e della vita pareva sembrarle quasi
innaturale. Meno
di ogni altra cosa sembrava apparirle possibile che le persone intorno
a lei
potessero davvero venire prima o poi a mancare.
Io
non so neppure come fosse fatto
suo padre, il nonno Ettore, morto quando io avevo poco più
di un anno, di cui
avevo appreso qualcosa più dagli altri nonni e dagli zii che
non da lei. Non
c’era mai stata nessuna sua foto a casa, perché
mia mamma faceva così tanta
fatica a elaborare un lutto, che anche a distanza di decenni le
fotografie
delle persone care scomparse continuavano a causarle più
dolore che cari
ricordi. Come quelle del nonno Ettore, avrebbe successivamente
allontanato
dalla sua vista le foto di sua mamma, perfino di mio fratello, e
più
recentemente quelle del suo fratello Bruno, e da ultimo anche quelle di
mio
papà.
Ricordo
ancora la sua disarmante
incredulità quando morì assai precocemente la sua
compagna di scuola Silvana,
la prima delle sue amiche ad andarsene: pareva che le sembrasse
inverosimile
che una sua amica e coetanea potesse morire, non solo morire
prematuramente.
Ma
forse quel suo ritrarsi dalla
storia, quel suo tenace rifiuto di contestualizzare, era anche frutto
di esperienze
che non voleva ripetere.
Il
nonno Ettore, per il poco che ne
ho appreso, era una singolare figura di autentico self-made man.
Da
giovanissimo arsenalotto veneziano era già un socialista
riformista e turatiano:
pacifista convinto, allo scoppio della prima guerra mondiale era almeno
riuscito a farsi assumere all’Ansaldo di Genova, allora la
principale industria
italiana di armamenti, e a evitare così di dover partecipare
anche fisicamente
alla guerra. Lì aveva incontrato la mia nonna Linda, che,
nata a Triora
nell’entroterra di Sanremo, aveva frequentato le magistrali a
Oneglia, ma poi,
anziché maestra, forse a causa della guerra, era diventata
telegrafista in un
ufficio postale di Genova. Si erano poi trasferiti a Trieste, dove da
poco aveva
aperto un negozio una loro parente.
A
Trieste l’intraprendente nonno
Ettore aveva un po’ alla volta impiantato una fabbrica dove
il carbone veniva
trasformato, da materia prima, nel combustibile con cui a
quell’epoca si
riscaldavano le case e si cucinava, ed era diventato il principale, se non l’unico
fornitore di
tutti i dettaglianti della città.
Nata
nel 1924, mia mamma da bambina e
da adolescente aveva vissuto a lungo il disagio di sentirsi divisa e,
come
diceva, incapace di scegliere, fra la scuola con la sua propaganda di
regime, e
mio nonno che, prudentissimo fuori delle mura domestiche, pare
esprimesse
quotidianamente in casa tutto il suo disgusto per il fascismo.
Non
altrettanto dubbioso era stato
il suo fratello minore, il mio zio Bruno, che a 17 o 18 anni aveva
preso parte
attiva alla Resistenza del CLN italiano di Trieste, rimanendo anche
ferito in
una delle azioni cui aveva partecipato contro i nazisti. Tanto che, a
guerra
finita, venne arrestato dai partigiani jugoslavi, che non tolleravano
che
gruppi di italiani antifascisti potessero risultare credibili
oppositori al
regime comunista e nazionalista che intendevano instaurare anche a
Trieste. Mia
mamma, per fortuna, anziché il francese o il tedesco, era
fra i pochi giovani
dell’epoca ad avere studiato l’inglese, e
riuscì ad andarselo a riprendere
sulla jeep di un ufficiale neozelandese cui aveva fatto casualmente da
interprete giorni prima, e che si rese immediatamente disponibile.
Probabilmente salvò così il mio zio Bruno da una brutta
fine.
Forse
anche per esperienze come
queste, comuni in quegli anni a tanti triestini strattonati fra opposti
fanatismi ideologici e nazionalistici, mia mamma lasciò
campo libero in seguito
alla sua caratteriale diffidenza per il fluire degli eventi esterni
alla sua
stretta cerchia.
Non
senza contraddizioni, però: come
per tante signore della sua generazione, già negli anni del
boom, se non ancora
il femminismo, nuove e più esigenti idee di emancipazione e
di autonomia
femminile avevano cominciato a farsi strada, non, come spesso a torto
si dice,
per merito dei movimenti di protesta giovanile, a lungo per lo
più biecamente
maschilisti, ma attraverso l’industria culturale e i
settimanali femminili, più
interessati dei sessantottini ai temi che la loro retorica considerava
“sovrastrutturali”, e ben più capaci di
permeare tutta la società attraverso
ceti e generazioni.
Assertiva
per carattere ma in
qualche modo frustrata dai morbidi e affettuosi condizionamenti
familiari e sociali
che la avvolgevano, credo che da allora il superego di mia mamma,
più
emancipato della titolare e della sua concreta vita quotidiana, abbia
un po’
sofferto i limiti della sua condizione di casalinga, e magari di
casalinga assai
privilegiata, lei che, dopo le magistrali, aveva studiato per un anno
da
privatista per ottenere la maturità scientifica, potersi
così iscrivere
all’università, a Chimica, e collaborare, pensava,
alla gestione della fabbrica
paterna. Grazie alle agevolazioni del periodo bellico aveva perfino
conseguito
la patente D e teoricamente, fino a cinquant’anni,
anziché le sue minuscole
utilitarie, avrebbe potuto guidare un autobus di oltre dieci metri
(fortunatamente, non ci provò mai). Il bombardamento della
fabbrica nel giugno 1944,
l’obsolescenza del carbone come mezzo di riscaldamento, il
matrimonio,
certamente felice, e i figli, l’avevano ricondotta a un ruolo
che svolgeva con
dedizione totale e con amore, un amore così intenso e
illimitato da risultare a volte
perfino maldestro – sempre, come spesso ripeteva,
“facendo del suo meglio” – ma
anche un ruolo che forse, sotto traccia, credo abbia sentito o
rimpianto come
un po’ stretto. Forse anche per questo non le
riuscì per nulla difficile
simpatizzare con i contenuti del mio passato impegno politico
liberalradicale,
anche se certamente avrebbe preferito da parte mia scelte di vita
più
prevedibili e consuete di un assorbente e prolungato impegno politico,
un ambito
che come detto osservava con diffidenza, e per di più, nel
mio caso, su
posizioni fortemente minoritarie in Italia (e perfino nel mio stesso
partito), e
quasi esotiche o indecifrabili per i più.
Come
si conveniva alle donne del suo
tempo, si era adeguata, magari con qualche ricorrente brontolio, anche
alla
frenetica routine che mio papà aveva impresso al loro tempo
libero, aveva pienamente
condiviso la passione per la vela e per lo sci, tutto sommato anche quella per il
bridge, meno
quella per i viaggi senza sosta in automobile, e ancor meno quella per
la pesca
sportiva all’alba di fredde e umide domeniche autunnali. Ma
per cinque giorni
alla settimana e per gran parte della sua giornata la casa era suo
dominio
riservato: tanto riservato da accogliere sempre con qualche resistenza
e
riserva qualunque miglioria che mio papà si fosse
incautamente azzardato a
farle trovare a titolo di “sorpresa” senza prima
consultarla.
Così
la sua natura riservata aveva a
poco a poco trovato una sua dimensione che considerava
“naturale”, in
strettissima simbiosi con mio papà durante i ben 68 anni del
loro matrimonio,
tutta interna alla famiglia, alla casa, al microcosmo degli amici, che
a poco a
poco erano quasi diventati un riparo dal mondo esterno, coltivando
intensamente
l’hobby della lettura e una grande passione per le piante e i
fiori della sua
terrazza.
In
definitiva, fino al compimento
degli ottant’anni, mia mamma ha avuto una vita
sostanzialmente serena, che per
tanti versi, come mi ha scritto in questi giorni Susanna, poteva
apparire
invidiabile. Un po’ portata, però,
all’opposto di mio papà, a vedere sempre il
bicchiere mezzo vuoto piuttosto che mezzo pieno, non so quanto se ne
rendesse
conto all’epoca. Certamente si convinse retrospettivamente di
essere stata
fortunata – lo ripeteva anzi spesso – quando,
subito dopo, arrivarono
improvvisamente e tutte assieme, disgrazie e avversità.
Solo
un mese dopo quell’ottantesimo
compleanno si ritrovò infatti di fronte alla scomparsa, del
tutto inaspettata e
imprevedibile, di mio fratello, colto da un’emorragia
cerebrale durante una
gita. Da quel momento non fu più in grado di riprendersi,
nonostante gli sforzi
di mio papà, che, anche lui certamente cambiato da allora,
aveva cercato però
di farle continuare la vita di prima, vela e montagna incluse.
Poco
tempo dopo, però, la prima
rovinosa caduta per le scale, un gesso che per due mesi le aveva
lasciato libere
solo le gambe e le dita di una mano; e dovette pure essere operata due
volte in
due giorni, perché, per non chiamare in aiuto
l’infermiera, la sera dopo la
prima operazione era scivolata dal letto con tutto il gesso. Fine anche
dell’autonomia automobilistica, cui teneva moltissimo. A
letto per due mesi, da
allora non aveva più potuto camminare come prima. Come e
molto più di mio papà,
lei, che si era sempre considerata una donna fisicamente sportiva e
dinamica,
non aveva mai accettato in nessun modo le limitazioni della salute e
dell’età.
Non aveva mai voluto avere un “piano B”. Purtroppo,
rifiutandosi anche, e irremovibilmente,
di utilizzare il deambulatore, finì per procurarsi numerose
altre fratture,
anche perché, dopo il lungo allettamento, le era pure sorta
una forte
labirintite.
Da
allora, per anni si è così autoreclusa,
per anni si è rifiutata di uscire di casa e di mostrarsi non
più autonoma. Anche
perché, come capita a chi vive così a lungo, e
vive per lo più in compagnia di
soli coetanei, un po’ alla volta aveva perso a una a una
quasi tutte le amiche
e gli amici di una vita.
Tre
anni fa la prima frattura del
femore. Operata, e appena cominciata la riabilitazione, di nuovo per
non farsi
aiutare ad alzarsi dall’infermiera, un’altra caduta
e un’operazione all’altro
femore. A quel punto non ha più potuto camminare per nulla,
neppure aiutata, e
intanto erano incominciati i ricoveri più seri di mio
papà, fino a quello
finale, che per lei è stata la mazzata finale.
Gli
ultimi due anni sono stati per
lei un insopportabile calvario. Rientrata a casa senza più
mio papà e senza
poter fare più nulla senza essere aiutata e assistita, non
si riconosceva più
in se stessa e ripeteva continuamente che non ne poteva più:
all’opposto di mio
papà, che davvero fin quasi
all’ultimo
avrebbe voluto continuare a vivere. Da assertiva, almeno nei propositi,
come
era sempre stata, era diventata totalmente rassegnata e remissiva.
Nessuno
riusciva a sollevarle il morale, neppure le visite, l’affetto
e l’assidua
dedizione della cara Tatiana, cui mi dispiace davvero di aver dovuto
chiedere
di non frequentarla per mesi a causa della pandemia, e neppure le cure
della
signora Julia, e delle sue amiche e colleghe che l’hanno
sostituita per brevi
periodi, che, sempre capace di un sorriso, ha saputo profondere nel suo
lavoro
doti davvero non comuni di umanità, premurosità,
gentilezza, empatia,
discrezione e disponibilità. Da questo punto di vista, pur
nella tristezza
della sua condizione negli ultimi due anni, mia mamma ha avuto almeno
questa
fortuna, e almeno di questo è stata consapevole e
riconoscente.
Quanto
a me, ho fatto quel che ho
potuto, ma so bene che lei avrebbe avuto bisogno di un figlio molto
più
sentimentalmente estroverso di me e molto più capace di
esprimere affetto anche
fisicamente.
Non
so se per lei sia stato un bene
o un male, ma è rimasta sostanzialmente lucida e del tutto
consapevole fino a
tre o quattro mesi fa, conservando perfettamente funzionanti fino
all’ultimo
sia la vista che l’udito. Si
è spenta lentamente e
progressivamente, per fortuna senza dolori fisici. Sono però
consapevole che,
se si fosse potuta risparmiare gli ultimi anni, il bilancio finale
della sua
vita sarebbe stato molto più felice.
Tutti
coloro che ne hanno conosciuto
in vita la bontà d’animo, la
generosità, la simpatia, la gentilezza, la
sensibilità e l’amabilità conserveranno
di lei il più caro dei ricordi.
Cimitero
di Trieste, 7 ottobre 2021
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