Critica di un’insana passione della leadership radicale negli anni Settanta


Quella che segue è la parte conclusiva di un intervento di Giulio Ercolessi pubblicato nel primo numero, ottobre-novembre-dicembre 1977, della rivista “Quaderni radicali”, diretta da Giuseppe Rippa. L’intervento rispondeva all’iniziale richiesta da parte della rivista di un editoriale sul convegno di Bologna “contro la repressione”, tenutosi nel settembre di quell’anno, cui avevano partecipato sia tutte le componenti della cosiddetta “Autonomia”, sia “Lotta continua”, o quel che ne restava, e molti intellettuali soprattutto francesi. Con “Lotta continua” e con i suoi leader, i radicali, e soprattutto Marco Pannella, avevano mantenuto, specie a partire dal 1972, uno strano rapporto privilegiato, fin dall’inizio criticato da Giulio Ercolessi, che si era concretizzato soprattutto con l’adesione di tale movimento alle iniziative antimilitariste radicali: queste, pur mantenendo la loro caratterizzazione nonviolenta, si erano così caricate in certa misura dei temi e del linguaggio propri di “Lotta continua”. Alla vigilia del convegno di Bologna e in assenza di Pannella si era svolto un dibattito nel Consiglio federativo del Pr sull’opportunità di aderirvi e parteciparvi, opportunità caldeggiata soprattutto dal presidente del Consiglio federativo Spadaccia e fortemente contrastata, fra gli altri, da Giulio Ercolessi. Alla fine il Pr non vi prese parte. L’editoriale sul convegno di Bologna, di cui sono qui riprodotte le considerazioni finali che riguardavano l’atteggiamento tenuto dal Pr in quei mesi nei confronti di quegli ambienti, risultò probabilmente troppo polemico agli occhi della rivista, che alla fine lo pubblicò ma sotto forma di lettera, soprattutto perché legava la valutazione del convegno di Bologna a quella degli eventi della primavera precedente, quando la raccolta delle firme per i referendum radicali, organizzata anch’essa assieme ad ambienti neocomunisti come quelli che si erano poi dati convegno a Bologna, era stata segnata dagli scontri del 12 maggio. In tali scontri, in cui fu peraltro ampiamente documentata la presenza di agenti provocatori armati, venne fra l’altro uccisa la giovane Giorgiana Masi. La critica contenuta nel testo è rivolta al rapporto venutosi a creare con questi settori del movimentismo neocomunista, ritenuto fonte di possibili gravissimi equivoci, e soprattutto alla gestione degli eventi del maggio precedente da parte della leadership radicale.


(...) Il «partito armato» è isolato, è perdente, è certamente pieno zeppo di provocatori dei vari corpi separati che se ne servono periodicamente, ma esiste e non è solo una invenzione propagandistica del regime, che pure ha largamente contribuito alla sua crescita. Tre anni fa sarebbe stata impensabile la pubblica apologia delle P38, sarebbero stati impensabili, a sinistra, le farneticazioni intorno alla costruzione del «partito armato». Oggi tutto questo esiste. Oggi all’interno dell’area dell’autonomia sono migliaia i giovani che si identificano in queste posizioni.


In queste condizioni non è possibile pensare che l’esempio della nonviolenza radicale possa modificare una subcultura politica che si è affermata, purtroppo, come un fenomeno di massa. Non vale il paragone con gli anarchici degli anni venti e trenta: «non ripetiamo l’errore di isolarli per evitare di farne davvero dei “demoni” disponibili per le provocazioni e disarmati di fronte alla repressione». Non si può continuare a dire neanche come paradosso che «in realtà sono proprio i nonviolenti i più vicini ai violenti». Certo, come qualunque assassino, anche chi usa le P38 è in larga misura un prodotto di una società violenta e corrotta, ma chi usa le P38 resta solo un assassino, si tratti di un agente di Cossiga travestito da autonomo, o si tratti – e ce ne sono – di un autonomo pitrentottista in carne ed ossa. Non solo per gli effetti del suo comportamento costui è oggettivamente un alleato della DC e del regime, ma è anche soggettivamente un assassino e un fascista, per il quale la sola vicinanza possibile è quella di «anarchici» come Bertoli e degli altri sicari della strategia delle stragi. Su questo punto non possiamo permetterci di non essere, come talvolta non siamo stati agli occhi dell’opinione pubblica (forse per non avere tenuto conto del modo in cui i mezzi di comunicazione di massa avrebbero trasmesso e presentato posizioni nostre non adamantine) di una chiarezza estrema: non è solo un problema di «immagine» del partito, ma è un problema elementare di schieramento e di scelta. Credo che alcune prese di posizione espresse all’indomani del 12 maggio di quest’anno abbiano nuociuto gravemente al Partito radicale. Il fatto che solo attraverso episodi di violenza (anche se in quella occasione per il 99% poliziesca) i giornali siano stati obbligati ad occuparsi degli otto referendum, e che quindi ci si sia accorti di quella iniziativa, determinandone il successo, non c’entra: riguarda responsabilità che sono della stampa e non nostre. Quello che invece è grave è che per la prima volta quel giorno l’assoluta intransigenza nonviolenta dei radicali è stata opacata da coperture inconsulte oggettivamente offerte a gruppi e persone che semmai dovrebbero riceverne e ne ricevono, da Cossiga, del quale, eventualmente, saranno «compagni» i pitrentottisti.

 

Da Quaderni radicali, Anno I, n. 1, ottobre-novembre-dicembre 1977.

In altro caso, nel 1975, il Partito radicale aveva fatto propria una presa di posizione fortemente polemica nei confronti di un’iniziativa unitaria cui la sinistra neocomunista attribuiva grande importanza, quella del progetto di legge di iniziativa popolare per la messa fuori legge del Msi, presa di posizione che nasceva da un articolo di Giulio Ercolessi pubblicato il 21 marzo 1975 da “Notizie radicali” e che non tutti i dirigenti radicali inizialmente avevano apprezzato, suggerendo piuttosto che fosse opportuno ignorare del tutto l’iniziativa al fine di non compromettere i rapporti con gli ambienti della sinistra extraparlamentare. In quel caso era stato Pannella a chiudere la discussione avallando le tesi contenute nell’articolo. Cinque anni dopo, quell’articolo, assieme ad un altro, di replica ad una critica al primo da parte dell’organizzazione “Avanguardia operaia”, pubblicato sul “Quotidiano dei lavoratori”, organo di quell’organizzazione, era stato ripubblicato nel volume “Noi e i fascisti. L’antifascismo libertario dei radicali” a cura di Valter Vecellio, edizioni Quaderni radicali. Quel volume conteneva però anche molti altri interventi successivi, di Pannella e di altri esponenti radicali, che, a differenza dei due articoli di Ercolessi, non riguardavano più soltanto questioni relative alla tutela della libertà di espressione, o all’uso della retorica antifascista come ideologia del “compromesso storico”, ma inauguravano anche una lunga stagione di polemica radicale nei confronti di alcuni caratteri dello stesso antifascismo storico.

 

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