Laicismo e definizioni



Non si può replicare alle argomentazioni critiche formulate da un recente editoriale della Civiltà Cattolica nei confronti del laicismo e del “Manifesto laico” senza cercare preliminarmente di intendersi sul significato dei termini.

 È noto che le definizioni della politica sono sempre ambigue e polisemiche, oltre che dotate di una carica emozionale raramente compatibile con il rigore semantico. Lo sono innanzitutto nella prassi, perché il messaggio politico aspira in genere ad essere ambiguo e polivalente, in modo da poter essere rivolto a settori diversi dell’opinione pubblica e dell’elettorato riscuotendo l’approvazione del maggior numero possibile di soggetti. E questo fenomeno è ancor più marcato nei sistemi bipartitici o bipolari, in cui deve farsi più energica e cogente quella funzione di reductio ad unum delle opinioni che è propria e fisiologica della democrazia rappresentativa.

È forse più sorprendente che una ambiguità e una polisemia non minori caratterizzino il linguaggio della politica anche nell’uso degli studiosi. Basti pensare a termini come “liberale” o “individualista”. Non si tratta, credo, solo e sempre di diffusa faziosità e di incontenibile spirito militante, che pure hanno un peso decisivo, data anche la secolare propensione dei chierici italiani al servilismo nei confronti dei potenti di turno. Non si tratta neppure soltanto, anche se neppure questo elemento va sottovalutato, di semplice ignoranza o sciatteria, o, al contrario, dell’esercizio un po’ narcisistico di chi pretende di sottrarsi in qualche modo a un uso convenzionale del linguaggio, per sovrapporvi personali criteri prescrittivi (“quello vero e quello falso”). Si tratta spesso anche di una sottovalutazione delle incomprensioni possibili e della confusione di concetti che l’uso di un linguaggio politico poco rigoroso e criticamente poco avvertito comporta; dell’inconsapevolezza perfino dell’esistenza di diversi significati convenzionali attribuiti a quelle parole da ambienti politici e culturali di diversa provenienza e formazione.

Se sarebbe puerile voler contrapporre i propri personali criteri direttivi a quelli altrui, sarebbe bene, quando si usano termini oggettivamente polisemici (o comunque più polisemici e ambigui di quanto non lo sia sempre il linguaggio), chiarire in quale significato si intende impiegarli e argomentarne criticamente le ragioni.

 

Una babele di significati

 

Assieme al termine “liberale”, pochi termini sono oggetto di così frequenti slittamenti di significato, nella cultura politica italiana di oggi, quanto i termini “laico” e “laicista”.

Nel comune linguaggio politico, culturale e giornalistico dell’Italia di oggi vengono definiti laici:

1 - i fedeli che non sono sacerdoti consacrati come tali dalla Chiesa romana (o dalle altre Chiese, ortodosse e anglicane, che condividono l’idea di un sacerdozio basato sulla “successione apostolica”);

2 - tutti i non credenti;

3 - gli atei e/o gli agnostici;

4 - coloro che professano una filosofia che respinge presupposti dogmatici;

5 - gli appartenenti a partiti non confessionali (sottovariante a: di centro; sottovariante b: di sinistra);

6 - i fautori della neutralità delle istituzioni pubbliche rispetto alle convinzioni religiose, ideologiche o culturali (o almeno rispetto a tutte quelle convinzioni che non mettano in discussione l’uguale libertà di espressione di tutte le altre);

7 - i fautori della secolarizzazione, intesa come esaurimento, oppure come espulsione, di ogni e qualunque presenza pubblica delle confessioni religiose;

8 - gli anticlericali, a loro volta intesi come

a) coloro che detestano le fedi religiose, e/o propugnano attivamente l’ateismo e/o l’agnosticismo, oppure

b) coloro che si oppongono al clericalismo;

9 - i membri non togati del Csm (ultima sopravvivenza, questa, del significato di “non appartenente a una particolare professione” o “non specializzato in una particolare disciplina”, per altri versi ormai desueto, come l’antiquato significato di “incolto”).

Il termine “laicista”, a sua volta, viene usato per lo più polemicamente dai cattolici come sinonimo dei significati 7) – in genere ritenuto inevitabile conseguenza del 6 ­– e 8a), e da chi lo rivendica per sé per lo più come sinonimo dei significati 6) e 8b).

 
Questa babele di concetti (quando i termini impiegati corrispondono a scelte consapevoli) discende ovviamente, oltre che da contingenti condizionamenti legati al dibattito politico, anche da tradizioni culturali diverse. Non solo, com’è ovvio, da quella cattolica e da quella liberale (e democratica, e socialista), ma anche da tradizioni “laiche” o religiose fra loro diverse.

 

Miscredenti clericali e credenti laicisti

 

Credo però che, ad evitare inutili confusioni, bisognerebbe tenere rigorosamente separati i significati che pertengono alla sfera dell’etica pubblica e della politica e quelli relativi invece ai convincimenti religiosi, filosofici o ideologici, alle complessive visioni del mondo, di coloro che li professano. Non perché non esista in genere un rapporto fra laicità o laicismo intesi in senso politico e convinzioni religiose o filosofiche, ma perché questo rapporto non è per nulla univoco. Non lo è perché non tutte le tradizioni religiose giocano nello stesso campo e nella stessa direzione; non lo è perché, da sempre e oggi più che mai, vi sono correnti politiche e culturali antilaiche, quando non apertamente clericali, animate da miscredenti, che assegnano alle tradizioni religiose un ruolo strumentale di supporto a istanze etnico-nazionalistiche, tradizionalistiche, d’ordine o moralistiche, a cui la fede religiosa rimane completamente estranea (Bossi propone, sotto questo specifico profilo, in modo incolto e straccione, per i suoi “padani”, né più né meno quel che Giovanni Gentile proponeva per i bambini e per gli analfabeti[1]). Ma soprattutto non lo è perché la stessa tradizione laica e laicista occidentale è stata in origine un frutto, prima ancora che del pensiero illuminista, di sviluppi interni ad alcuni specifici settori della tradizione religiosa cristiana riformata. È ad essi che risale la messa in questione dell’idea stessa di una religione stabilita dallo Stato e l’affermazione della libertà di culto per chiunque fosse disposto a rispettare l’altrui pari libertà, già un secolo prima della nascita e dell’affermazione del pensiero dei lumi (anche per i non cristiani, come gli ebrei). Del resto, anche a rimanere allo scenario italiano di questi anni, è facile constatare come ben poco rimarrebbe delle battaglie laiche degli ultimi anni, se se ne dovesse escludere l’apporto di protestanti, ebrei e cattolici critici.

Per quanto possa apparire vano proporre di rimettere in discussione abitudini linguistiche ormai abbastanza consolidate, mi pare che la stessa distinzione fra laicità e laicismo dovrebbe assumere in quest’ottica un significato diverso e in certo modo opposto a quello corrente. Se l’aggettivo “laico” denota una condizione di fatto, quella cioè di uno Stato o di istituzioni neutrali rispetto alle diverse convinzioni religiose, filosofiche e culturali, e come tali garanti della loro pari libertà e dignità e dell’assenza di privilegi o di discriminazioni, coloro che propugnano il raggiungimento di un tale risultato non potranno certo dirsi a loro volta “laici”, se non con la consapevolezza che in questo caso la parola ha tutt’altro significato. Essi potrebbero infatti essere, soggettivamente, tutt’altro che neutrali rispetto alle diverse confessioni, ed essere invece convintamente appartenenti all’una, all’altra o a nessuna. Se essi intendono rendere laiche le istituzioni, che a loro giudizio non lo sono o non lo sono abbastanza, come altro definirli se non “laicisti”? Si noti che, in questa accezione, diversamente che nell’uso ormai polemicamente invalso, soprattutto da parte cattolica, il “laicista” potrebbe addirittura spesso non essere affatto areligioso o antireligioso, a differenza del “laico” (almeno se si volesse continuare ad utilizzare quest’ultimo termine anche come sinonimo di “non credente”). Se infatti, sul piano dei convincimenti personali, si dovesse considerare «laico l’uomo di ragione, credente l’uomo di fede» (Bobbio), il “laicista”, cioè il propugnatore di istituzioni pubbliche laiche, potrebbe invece essere qualcuno addirittura motivato dalla propria fede religiosa, oltre e prima ancora che dalle proprie convinzioni civili, ad assicurare alla propria e alle altrui confessioni religiose uno status giuridico di uguale libertà e dignità sociale rispetto alla confessione socialmente o tradizionalmente dominante (se non addirittura attivamente impegnata a perseguire la discriminazione o la persecuzione delle minoranze religiose o sociali ad essa estranee, o critiche nei suoi confronti). È questa, con ogni evidenza, la posizione largamente prevalente fra i protestanti e gli ebrei italiani e i cattolici critici.

 

I dogmi indeboliti dei credenti aggiornati e i postulati convenzionali della ragione debole

 

Inoltre, anche volendo entrare nel merito delle soggettive convinzioni in materia religiosa o filosofica, lo stesso atteggiamento culturale dei credenti non è affatto sempre definibile come segnato dalla supina accettazione di presupposti “dogmatici” che lo distinguerebbero nettamente e quasi antropologicamente da quello dei non credenti. Certo, tale distinzione mantiene il suo valore se riferita alle gerarchie vaticane e ai cattolici più o meno allineati (e ancor più, probabilmente, ai mussulmani osservanti), rispetto ai laici di convinzioni liberali. Ma, a parte il fatto che la realtà dei percorsi culturali individuali è sempre più complessa, e al giorno d’oggi sempre più variegata, di quel che le nostre soggettive concezioni di “coerenza”, sempre fondate sulla nostra personale identità culturale, suggerirebbero di applicare agli altri, mi pare che tale distinzione male si presterebbe, per esempio, a classificare la maggior parte degli intellettuali contemporanei appartenenti alle altre due tradizioni religiose autoctone dell’Europa occidentale, protestanti ed ebrei credenti. Non esistendo all’interno di queste confessioni religiose una gerarchia autoritaria titolata, come quella romano-cattolica, a parlare almeno ufficialmente a nome di tutti i singoli componenti e a vincolarne le coscienze, i presupposti “dogmatici”, in questo caso, si riducono spesso, nella società secolarizzata, dopo due millenni di dispute fra diverse scuole di pensiero e due secoli di pressioni assimilazioniste su un versante, e dopo cinque secoli di “libero esame”, due di “teologia liberale” e sessant’anni di ermeneutica della “demitizzazione” sull’altro, a un nucleo così limitato di postulati, da rendere le convinzioni religiose di costoro difficilmente qualificabili come molto più “dogmatiche” della maggior parte delle convinzioni intellettuali che sono abituale patrimonio “presupposto” dei non credenti. I presupposti accettati da questi credenti si riferiscono ormai a una fede religiosa ampiamente “depurata” da quel che è intellettualmente insostenibile per la cultura moderna e contemporanea, e fanno ampio spazio alla inconoscibilità, in tale prospettiva, di dettagli e asserti tradizionali la cui “verità” è ancora ostinatamente difesa dal magistero e dalle congregazioni vaticane sulla scorta della tradizione cattolica. La fede di costoro, quando è radicata in una dimensione culturale, assume spesso invece le caratteristiche della scommessa pascaliana, o dell’incontro con il “radicalmente altro” barthiano, e non partecipa certo delle granitiche e dettagliate certezze metafisiche della teologia e della filosofia medievali delle encicliche di Giovanni Paolo II, con i loro consequenziari corollari in campo etico e politico[2].

Analoghe sono ormai anche le posizioni di molti cattolici, che si definiscono tali senza troppo badare alle prescrizioni e alle teologie ufficiali del Vaticano, ma solo perché cristiani nati in un paese di tradizione cattolica[3], e che condividono molte posizioni culturali ed etiche fondamentali tipiche del mondo protestante piuttosto che della gerarchia, anche se trovano inutile o scomodo ammetterlo (o non possono riconoscerlo a causa dell’immagine distorta che del protestantesimo offrono i media e gran parte della cultura italiani). Se è lecito avanzare rispettose riserve sulla scelta di qualificare le proprie convinzioni religiose sulla base dell’identificazione con una tradizione comunitaria di tipo “etnico”, dal punto di vista delle ricadute civili e politiche è comunque un peccato che i cattolici critici che si riconoscono in queste posizioni non sentano il bisogno di esplicitare una rottura con le strutture gerarchiche della Chiesa romana (e quindi con una Chiesa che si distingue e si caratterizza proprio per la sua struttura gerarchica e autoritaria e per il ruolo del magistero), rottura che nei fatti e sul piano delle scelte culturali è ampiamente consumata da decenni, e sedimentata in una sorta di inespressa estraneità reciproca, almeno culturale e civile. Purtroppo la sordina che una sorta di ecumenical correctness teologica sembra imporre alle differenze denominazionali concorre ad appiattire tutte le posizioni culturali dei credenti sull’immagine trionfalistica e prepotente della Chiesa romana: mettendo in ombra quella forma declericalizzata di cristianesimo che, con la Riforma, è alle radici della modernità occidentale e che si contrappone (in modo ovviamente non lineare, come sempre nella storia) a quella versione coerentemente autoritaria della stessa tradizione cristiana che è il cattolicesimo romano. Se così non fosse, o se almeno l’esposizione mediatica del Papa e della gerarchia non impedisse di vedere nelle Chiese della Riforma un’espressione altrettanto autorevole (e culturalmente più autorevole, perché intellettualmente libera) della cultura teologica europea, non ci si sognerebbe di considerare come portato necessario della fede religiosa le posizioni retrive che, anche e soprattutto in materia di etica privata e pubblica, sono invece patrimonio tipico e sostanzialmente esclusivo, nell’Europa occidentale contemporanea, della Chiesa romana.

E non è certo un caso che, da decenni, su pressoché tutte le questioni che dividono in Italia i “laici” dai cattolici, la posizione dei protestanti storici e quella della maggior parte degli ebrei civilmente impegnati sia stata quasi sempre consonante con la posizione dei “laici” anziché con quella dei cattolici ufficiali. Così è accaduto, attraverso i decenni, su argomenti come il regime concordatario, il finanziamento della scuola confessionale, la contraccezione, il divorzio, la regolamentazione giuridica dell’aborto o dell’eutanasia, la bioetica, le famiglie di fatto, i diritti civili degli omosessuali, la libertà della ricerca scientifica, l’etica proibizionista. L’ispirazione cristiana o ebraica non ha affatto portato questi credenti agli approdi politici antimoderni e autoritari tipici del magistero cattolico[4].

L’attribuzione della qualifica di non laici ai credenti e di laici ai non credenti presuppone in realtà che i primi vengano identificati con i cattolici romani ortodossi e allineati (il che già contrasta con l’emergere del modello del cattolicesimo “fai da te” evidenziato da decenni da ogni indagine sulla religiosità degli italiani e più in generale degli europei occidentali, prima ancora dell’emergere del fenomeno più consapevole dello “scisma sommerso” cui si è già accennato); e che ai secondi si attribuisca una concezione univoca e “forte” dell’idea di “Ragione” che gli sviluppi prevalenti del pensiero filosofico del Novecento hanno eroso fino a dissolverla.

Tra l’altro, questo schema pone nelle mani dei polemisti clericali un’arma di non poco conto, dato che essi potranno agevolmente argomentare che, logoratasi l’idea forte di una Ragione capace di autofondarsi, la distinzione fra chi presuppone e chi non presuppone dogmi o postulati è ormai largamente opinabile e sfilacciata: quindi breve e agevole sarebbe oggi il salto verso la fede identificata con il clericalismo papista, dimostratosi capace meglio di ogni altro di impersonare e salvaguardare la tradizione occidentale. Di più, questa concezione si presta molto bene a fornire ai polemisti clericali il pretesto per avvalorare un’immagine caricaturale dei loro avversari, un’immagine in cui liberali e marxisti, giacobini e girondini, idealisti e positivisti, razionalisti e sostenitori del pensiero debole, pensatori analitici e continentali, comunisti e liberisti, vengono tutti accomunati (come all’epoca della Restaurazione o del Sillabo), in un’unica catena caratterizzata dal necessario susseguirsi di errori conseguenti all’abbandono della docile soggezione alla materna guida della gerarchia cattolica e della sua concezione della trascendenza, in nome di un’arrogante “onnipotenza della Ragione” – di una Ragione destinata a corrodere e a minare alla base anche i propri stessi fondamenti[5]. Di qui, per esempio, l’ascrizione a un’univoca discendenza “laicista” del terrore giacobino e del persecutorio ateismo di Stato dei regimi comunisti. Di qui la convinzione di avere sostanzialmente vinto, e chiuso la partita, almeno sul piano dei principi, con il crollo del comunismo, visto come manifestazione di “laicismo”, e anzi come sua manifestazione massima e finale. Quando invece i laici e i laicisti liberali hanno sempre visto in tali regimi e correnti di pensiero caratteristiche dogmatiche e chiesastiche che riprendevano, portandoli alle estreme e più violente conseguenze, le mentalità, la coartazione delle coscienze, il culto dell’uniformità di pensiero, lo stile di comando, l’intolleranza e talvolta anche alcune idee-forza, delle antiche Chiese.

 

Un conflitto di valori etico-politici

 

La distinzione fra laici e non laici non può quindi essere ricercata nella fede religiosa o nella sua assenza, bensì in un contrasto di valori che divide non già credenti e non credenti, ma liberali e autoritari: coloro che ritengono lecito imporre a tutti, con la forza della legge, comportamenti conseguenti alle proprie convinzioni religiose o filosofiche e coloro che invece ritengono che non sia compito delle istituzioni pubbliche imporre un’etica di Stato; e che si imponga quindi una buona dose di self-restraint da parte del legislatore nelle materie eticamente controverse, su cui non può essere raggiunto un minimo comun denominatore condiviso dalla generalità dei consociati.

Anche, naturalmente, se tale etica venga contrabbandata come “naturale”: idea di radicale inconsistenza storica, sociologica e antropologica, che però sembra ormai essere divenuta il solo articolo di fede ossessivamente riproposto e il solo oggetto delle prese di posizione in materia di etica pubblica delle gerarchie cattoliche e dei cattolici ortodossi[6]; idea tanto poco universalmente condivisa – come aspirerebbe ad essere – da essere rigettata non solo dalla maggior parte dei non credenti, ma anche dalla maggior parte delle altre Chiese cristiane dell’Europa occidentale, che tra l’altro non le riconoscono neppure il minimo fondamento scritturale. Eppure, per i media italiani, per i quali le minoranze religiose autoctone culturalmente non esistono, le questioni assunte a paradigmatiche della contrapposizione fra “credenti” e “non credenti” sono proprio quelle attinenti alla predicazione cattolica della pretesa “morale naturale”.

Secondo la prospettiva qui proposta, invece, la distinzione fra laicisti e clericali andrebbe riferita esclusivamente alla sfera dell’etica pubblica e della politica, e niente affatto alle convinzioni personali in materia di trascendenza. Il laicismo così si rivelerebbe nient’altro che l’applicazione dei principi liberali al campo della politica e del diritto ecclesiastici[7]. Non è certo una novità: la lotta per la libertà religiosa e di coscienza in Occidente è stata la matrice e il modello per la conquista di ogni altra libertà e di ogni altro diritto. Fin dalle rivoluzioni del Seicento inglese, liberalismo e libertà religiosa sorgono e procedono (o soccombono) assieme.

Il richiamo a un contrasto di valori potrà apparire problematico a chi veda nel laicismo la conseguenza politica di visioni del mondo incapaci di conferire alle scelte etiche un senso e un orientamento – e tanto più a chi lo veda naturalmente fondato su una concezione filosofica “debole”, oltre che priva di riferimenti a qualunque forma di trascendenza. Il punto è che una concezione liberale del laicismo, quale che sia la concezione filosofica o religiosa che la motivi, non può comunque fare a meno di una consapevole scelta di valori che ne determina alla fin fine la plausibilità e la persuasività: una scelta in favore della libertà degli individui e contro la pretesa di imporre loro un’etica e una verità di Stato, o di riconoscere a una convinzione religiosa una dignità superiore alle altre.

Tale scelta liberale può essere motivata dalla fede religiosa (a qualcuno potrà sembrare forse paradossale, ma questa è stata precisamente la sua più lontana origine storica, propria di alcune correnti protestanti – non certo tutte – del Seicento calvinista e puritano, che nel giro di poche generazioni capovolsero il carattere profondamente illiberale della teologia politica di Calvino[8]); oppure da una concezione “forte” di una Ragione che si ritenga capace di autofondarsi; oppure ancora da una scelta etica coscientemente soggettiva, compiuta da chi sia consapevole della infondabilità oggettiva e del carattere sempre alla fine condizionato e soggettivo – per quanto argomentato, per quanto consapevolmente radicato in una storia e in una tradizione civile – di ogni scelta etica controversa nell’epoca del “politeismo dei valori”.

Resta comunque il fatto che tale scelta non verte soltanto sulla mera accettazione di regole procedurali di convivenza pacifica fra diversi. Ci è stato insegnato che la democrazia liberale coincide con il rispetto delle “regole del gioco”. Ma la sopravvivenza della democrazia liberale ha bisogno della diffusa consapevolezza (in Italia tutt’altro che pacificamente radicata) delle ragioni e del valore di quelle regole. La democrazia liberale ha cioè sempre bisogno di una legittimazione ulteriore, che in qualche modo ne espliciti il fondamento valoriale. Suonerà certamente retorico definire oggi questo fondamento come una “fede nella libertà”. Ma ogni convinzione liberale (di sinistra o di destra che fosse), quale che ne sia stata la matrice religiosa, filosofica o ideale, è sempre stata radicata nella persuasione che imporre agli individui costrizioni ulteriori rispetto a quelle strettamente necessarie per assicurare il carattere reciproco e il godimento universale dei diritti di libertà costituisse un’inaccettabile prepotenza, una sopraffazione arbitraria, una coartazione sempre aperta alla possibilità e alla probabilità di abusi e violenze ulteriori contro la dignità dell’individuo, e una mortificazione delle possibilità di sviluppo morale e civile, oltre che economico e sociale, dell’umanità.

 

Complessi di inferiorità e cupidigia di servilismo

 

A dispetto delle reiterate proclamazioni di anticomunismo, a comunismo morto e sepolto, della nuova destra italiana, il venir meno della contrapposizione con il grande antagonista sovietico sembra aver fatto smarrire alla democrazia liberale le ragioni della sua diversità e della sua unicità. Proprio mentre, in un mondo prevalentemente ancora dominato da regimi autoritari, militari, violenti, fondamentalisti o tribali, si afferma la leggenda del trionfo universale del supposto “pensiero unico” occidentale, identificato con la democrazia liberale oltre che con il capitalismo globalizzatore, la classe dirigente italiana sembra essersi fatta convincere dalla gerarchia cattolica che la democrazia liberale non sia portatrice o espressione di valori, anzi sembra essere stata persuasa che la libertà dell’individuo che le è peculiare sia in sostanza un disvalore. Non solo ai liberali immaginari della destra, ma anche a molti fra quelli altrettanto neofiti della sinistra, orfani non solo del comunismo ma anche della socialdemocrazia, la Chiesa romana, forte delle certezze medievali del suo capo, sembra il solo possibile punto di riferimento morale. Purtroppo non si tratta sempre e soltanto di furbesco opportunismo.

Nei confronti del mondo cattolico si pratica in Italia uno “sconto morale” paragonabile solo a quello abitualmente praticato nei confronti delle violazioni dei diritti umani perpetrate dai governi del Terzo Mondo. Si ascoltano con compunzione e reverenza le reprimende e le prediche morali – e i programmi di legislatura – della Conferenza episcopale, ci si rivolge al cardinale di Milano come alla “più alta autorità morale” della città (un po' come facevano fascisti e Cnl nei confronti del cardinale Schuster alla vigilia del 25 aprile), si ricordano le omelie del cardinale Pappalardo come il punto di partenza della lotta contro la mafia, ma ci si guarda bene dall'evocare le pesantissime compromissioni dei suoi predecessori, preti e cardinali sono le sole celebrità televisive interpellate come esperte di moralità e di umanità. Quasi nessuno si permette più di chiedere conto, non delle vicende dello Ior, non delle speculazioni immobiliari del Vaticano, non di vicende storiche meno recenti, ma neppure del sostegno incondizionato fornito dalla Chiesa cattolica italiana alla Dc, cioè al partito architrave e fondatore del regime della corruzione, ben dopo che una minaccia comunista interna era già tramontata da un pezzo. Di fronte alla bancarotta morale in cui si è ritrovata, a mezzo millennio dalla “Riforma cattolica”, l'intera società di un paese da allora al 99% di tradizione cattolica, e per mezzo secolo governato dal partito dei cattolici, ci si sarebbe dovuti interrogare innanzitutto sui rapporti fra tale tradizione, i suoi “tribunali della coscienza”, e lo stato miserando dell'etica pubblica. Invece non solo i vescovi non si sono sognati neppure di chiedere perdono al paese, se non al loro Dio, per avere così direttamente concorso al disastro con le loro direttive e le loro indicazioni: un gigantesco complesso di inferiorità da parte dei “laici”, paragonabile a quello da molti nutrito trent'anni fa nei confronti della cultura marxista, ha spinto Giuliano Amato a chiedersi ripetutamente perché in Italia la morale kantiana non abbia funzionato e la Chiesa cattolica sì[9]. Che Kant non abbia funzionato proprio perché vi faceva ostacolo la tradizione controriformista, non sembra ipotizzarlo nessuno.

Come molti altri leader del centrosinistra oltre che della destra, il Presidente del Consiglio da anni non lascia passare sei mesi senza proclamare pubblicamente il suo complesso di inferiorità di laico nei confronti dei cattolici, dotati di “una marcia in più”, perché capaci di un amore che sarebbe precluso ai laici dalla loro incredulità[10]. Le vicende politiche e i casi della vita avranno anche fatto frequentare al prof. Amato politici laici di non specchiata moralità e carità (è quanto meno lecito dubitare però della superiorità a questo riguardo del mondo politico cattolico); ma, quanto a “capacità di amare”, per quel che riguarda ciò che vi è di tipico e peculiare nell’insegnamento morale della Chiesa romana, vi è da chiedersi se questa vada ricercata nel costringere una donna, magari addirittura violentata, a partorire un figlio non voluto (o quanto meno nel costringerla ad abortire per via chirurgica anziché per mezzo di una pillola), nel rendersi complici (assecondando idiosincrasie futili e superstiziose nei confronti dei mezzi di prevenzione) del dilagare di epidemie, sovrappopolazione, fame e rovina del pianeta, nel contrastare o discriminare, soprattutto nei momenti più tragici della vita, gli affetti e i legami interpersonali che siano incoerenti con i principi e le direttive di una confessione religiosa[11], nell’etica proibizionista sostanzialmente indifferente alle sofferenze degli ammalati, nel procrastinare all’infinito l’agonia dei morenti, nell’ostacolare la ricerca scientifica volta a sconfiggere malattie gravissime e invalidanti in nome della sacralità degli zigoti – o in nome del proprio orgoglio ideologico e confessionale.

Tra l’altro, dato che come è noto l’appetito vien mangiando, ogni concessione e ogni manifestazione di soggezione da parte della cultura laica viene sistematicamente interpretata dai clericali come un’autorizzazione e uno stimolo a pretendere sempre di più, sia in termini di trasferimenti di risorse economiche pubbliche, sia nelle questioni legislative. Tutte le tormentate dichiarazioni di un intero decennio del Presidente Amato, simpatetiche nei confronti delle posizioni cattoliche sull’aborto e su altri argomenti, così come tutte le doviziose regalie prodigalmente concesse a spese dei contribuenti in occasione del Giubileo cattolico e in materia di parità scolastica, non gli sono valse la gratitudine di quella Chiesa, ma solo attacchi e pretese sempre più esigenti di resa totale e senza condizioni dello Stato a ogni intimazione del Vaticano[12]. Comprensibilmente, dato che a sua volta la destra “liberale” italiana (con la sola eccezione della sparuta pattuglia del “polo laico”, numericamente e quindi politicamente debolissima) si è manifestata ampiamente disponibile a rinunciare anche ad ogni residua parvenza di dignità nei suoi confronti.

 

Non una disputa filosofica, ma una rivolta liberale contro la prepotenza e l’arroganza clericale

 

È in nome della “fede nella libertà” dell’individuo come sola possibile condizione di sviluppo morale e civile, in nome di questa persuasione etica e politica liberale, che sottrae il laicismo politico all’accusa – o all’aspirazione quietista – dello scetticismo e dell’agnosticismo morale o etico-politico, che si giustifica pienamente la sua pretesa di contrapporsi civilmente e democraticamente all’opposta pretesa clericale di imporre con la forza della legge i comportamenti prescritti da una confessione religiosa che si ritiene ancora titolata a dominare sulle coscienze altrui e a discriminare chi non ne condivida opinioni, convinzioni, valori e insegnamenti. Perché mai alla pretesa vaticana, mai così arrogante da decenni come in questo periodo giubilare, di dettar legge in materia di bioetica (da ultimo perfino in materia di biologia), di prescrizioni farmaceutiche, di politiche economiche, di esercizio di libertà fondamentali come il diritto di riunione, e in materia di diritto di famiglia, di libertà della ricerca scientifica, di politiche immigratorie e così via, i laici o i laicisti dovrebbero poter contrapporre solo timorati sussurri? Su ciascuno di questi terreni non si tratta di discutere accademicamente di filosofia o di religione, dell’esistenza di Dio, di dogmi mariani o dell’infallibilità teologica del Papa.

(Peraltro non si vede neppure perché, in Italia, debba continuare ad essere considerato inurbano e indelicato discutere pubblicamente anche di queste questioni, come avviene senza nessuno scandalo da secoli in paesi di più marcato pluralismo religioso. Certo sarebbero incongrui in questo genere di discussioni – se di questo si trattasse – i toni e lo stile polemico della lotta politica quotidiana: ma, detto questo, perché mai le convinzioni dei religiosi dovrebbero godere di un surplus di rispetto e di deferenza, rispetto a quelle dei non credenti?[13]).

Qui si tratta di non soggiacere a una rinata tracotante volontà di dominio sulle vite altrui, di non sottomettersi a comandi arbitrari, di rifiutare, se non la tirannide della maggioranza, la prepotenza di chi vuole imporre con le leggi la propria egemonia (tra l’altro, senza essere più neppure maggioranza[14]), di garantire diritti fondamentali, di opporsi a discriminazioni odiose, di respingere l’idea che i genitori abbiano diritto di vita e di morte culturale sui propri figli, di rifiutare l’arrogante pretesa di prelevare coattivamente dalle tasche dei contribuenti i fondi necessari a sostenere le attività di una Chiesa di cui non si fa parte o diversa dalla propria, e magari ostile alle proprie più profonde convinzioni – e ciò solo perché la fede dei romano-cattolici ligi alle indicazioni del Vaticano non è evidentemente sufficiente a far porre loro mano al portafoglio nella misura ritenuta necessaria ai suoi bisogni dalla gerarchia. Perché mai solo a quella gerarchia dovrebbe essere riconosciuto il diritto di essere “battagliera” (quando proprio lei non ne avrebbe certo bisogno, per farsi ascoltare da una classe politica e da mezzi di informazione fin troppo servili), di insolentire, di dispensare patenti di immoralità? Perché mai i laici o i laicisti non dovrebbero rispondere al revanscismo clericale con contrapposti argomenti anti-clericali – cioè contrari al clericalismo, non alla o alle fedi religiose?

I laici intesi come liberi pensatori, come persone che respingono convinzioni dogmatiche (se proprio si vuole conservare l’uso anche di questa accezione del termine), potranno anche dubitare scetticamente di tutto, e spingersi fino alla completa atarassia; ma perché i laicisti, intesi come cittadini che hanno compiuto determinate scelte etico-politiche, dovrebbero inibirsi qualunque forma efficace di lotta politica democratica, in nome del proprio antidogmatismo e del culto dei propri dubbi? Alla stregua di un tale criterio, ogni forma di lotta politica, anche contro i peggiori fondamentalismi, dovrebbe essere terreno riservato solo a chi professa convinzioni e ideologie altrettanto dogmatiche e intolleranti.

 

La via rivoluzionaria francese e la via risorgimentale italiana

 

Come accennato, alcuni degli equivoci ingenerati dai termini di cui stiamo discorrendo dipendono anche dalle differenze fra diverse tradizioni politiche nazionali, in particolare fra quella francese e quella italiana. I due maggiori paesi europei di tradizione romano-cattolica, approdati fin dal secolo scorso alla democrazia liberale, Francia e Italia, sono i due paesi in cui il laicismo ha storicamente e politicamente assunto maggiore importanza. Ma, mentre in Francia il laicismo è stato segnato dal giacobinismo rivoluzionario, in Italia ha costituito uno dei più originali e significativi elementi del Risorgimento. Qui la lotta politica liberale si accompagnava almeno altrettanto a speranze (utopiche anche perché irrimediabilmente tardive) di riforma religiosa, quanto a tentativi di soppiantare il cattolicesimo con filosofie e ideologie positivistiche; e spesso non si poneva neppure problemi politico-religiosi, accontentandosi del tentativo di conciliare privatamente lotta politica e fede religiosa. Mentre in Francia il laicismo è imparentato con la tradizione statalista, centralista e democratico-autoritaria dello Stato repubblicano francese (una tradizione in campo religioso non priva di rapporti con quella gallicana precedente) e con una concezione forte dell’unità e della sovranità stessa della nazione, in Italia il laicismo ha coinciso soprattutto con la liberazione del paese dalle strutture soffocanti della Restaurazione e delle minoranze religiose da persecuzioni e discriminazioni, e con la progressiva affermazione – nei decenni successivi all’unità – della piena libertà religiosa. Il laicismo italiano, se ha combattuto anche aspramente le istituzioni ecclesiastiche cattoliche, lo ha fatto in nome della libertà degli individui, prima che in nome delle prerogative dello Stato; quello francese lo ha fatto anche (anche) in nome di filosofie e visioni del mondo che intendevano soppiantare e sostituire il cattolicesimo a vantaggio di una concorrente egemonia culturale sulla nazione e fondare attraverso la scuola pubblica un’etica universale razionalistica. Se in Italia il laicismo è sempre stato propugnato come lo strumento e la garanzia della libertà religiosa di fronte al clericalismo cattolico, in Francia esso è visto anche come un limite posto all’esercizio di quella libertà.

Soprattutto, all’originaria concezione francese (rivoluzionaria) della laicità era radicalmente estranea l’idea che, così come la Chiesa non poteva più ingerirsi nelle questioni politiche, anche lo Stato dovesse astenersi dall’intervenire in quelle religiose[15]: ne consegue un separatismo unilaterale – di cui la manifestazione più eclatante fu durante la Rivoluzione la Costituzione civile del clero – in parte sopravvissuto al Concordato napoleonico, e di cui è facile vedere la profonda differenza con la formula cavourriana[16]. Ma anche in seguito, e pure dopo la separazione del 1905, forti tracce di quella concezione permarranno. Di qui, per esempio, il dibattito svoltosi all’epoca su quale forma giuridica e organizzativa attribuire imperativamente alle confessioni religiose[17], il divieto, introdotto pressoché in contemporanea con la denuncia del Concordato, di predicare in bretone[18]; e il persistente divieto per i ministri di culto francesi di celebrare matrimoni religiosi non preceduti da matrimonio civile[19]. Così, se l’opposizione alla presenza del crocifisso (assente in Francia, reintrodotto in Italia dal fascismo e mai più rimosso) dalle aule scolastiche e dai tribunali accomuna le due tradizioni laiciste in nome della neutralità religiosa delle istituzioni pubbliche, la perentoria richiesta che anche gli individui debbano spogliarsi di ogni simbolo legato alla loro appartenenza religiosa in quanto ritenuto ostentazione provocatoria di un’appartenenza identitaria (p. es. la polemica sul velo islamico nelle scuole pubbliche francesi dopo il caso scoppiato nell’89) è invece non a caso peculiare della tradizione francese[20]. Da parte degli studiosi francesi si sottolinea talvolta come il “riconoscimento” delle identità e confessioni religiose costituirebbe una lesione del principio di laicità[21]. Un tipico esempio si è avuto qualche anno fa, quando la concomitanza di una tornata elettorale con la festività ebraica dello Yom Kippur aveva spinto soprattutto i laici italiani a chiedere un’estensione dell’orario di affluenza alle urne fino a dopo il tramonto, per consentire la partecipazione degli ebrei osservanti; mentre in Francia, dove anche erano state indette elezioni in tale data, una tale eventualità non era stata neppure presa in considerazione, proprio in nome della laicità della Repubblica. È abbastanza chiaro però come, in questo modo, si rischi proprio di violare il principio laicista della neutralità religiosa delle istituzioni pubbliche: a nessuno verrebbe in mente neppure in Francia di eccepire qualcosa sull’abbigliamento di una suora, o di chiamare gli elettori alle urne in concomitanza con la Pasqua o il Natale cattolici, benché votare in tali date non costituisca per i cattolici un problema di coscienza, come per gli ebrei osservanti votare durante lo Yom Kippur. E analoghe considerazioni potrebbero farsi per il problema dei giorni di riposo settimanale.

È ovvio che questa contrapposizione è necessariamente schematica, e che tradizione liberalrisorgimentale italiana e tradizione giacobina, illuminista e positivista francese hanno certo avuto fondamentali punti di incontro e di convergenza[22]: anche in Francia, tra l’altro, la Repubblica laica e rivoluzionaria ha sancito la piena emancipazione e liberazione delle minoranze religiose ed è stata lo strumento dell’affermazione delle libertà individuali; in Italia la contrapposizione anche bellica con il Papa ha pur comportato qualche inevitabile asprezza; e uno stimolo a ripensare le rispettive concezioni della laicità delle istituzioni, e a riconoscere loro una rinnovata attualità, è venuto in entrambi i paesi dall’emergere di una presenza islamica negli ultimi anni[23]. Ma, di fronte all’incontestabile e acquisito giudizio sulla scarsa originalità complessiva della tradizione liberale italiana, sulla sua «modesta importanza», mero «riflesso di dottrine e indirizzi stranieri»[24], mi pare non ne vada sottovalutata, specie in questi tempi di revisionismi storici cattolico-reazionari, proprio la capacità di avviare un processo di nation-building sostanzialmente liberale, almeno per i suoi tempi, in un paese di tradizione romano-cattolica autoritaria e controriformista. Il che era tutt’altro che scontato, se si pensa che, ancora fino alla metà degli anni settanta del secolo che si è appena chiuso, l’Italia era il solo grande paese di tradizione religiosa romano-cattolica oltre alla Francia ad avere costruito (magari più male che bene, ma questa è un’altra storia) una stabile democrazia liberale, ma senza essere dovuto passare, come la Francia, attraverso un preliminare massacro rivoluzionario di massa. E proprio la politica ecclesiastica del Risorgimento aveva consentito che questo accadesse con tanto anticipo rispetto agli altri paesi cattolici. Anzi, proprio questa politica costituisce forse, assieme allo storico abbattimento del potere temporale dei Papi, il tratto più originale e il maggiore contributo dell’Italia alla civiltà del liberalismo europeo: dato che in precedenza si sarebbe anche potuto pensare – e molti hanno in effetti continuato a pensarlo non senza qualche buon motivo anche successivamente – ad una sostanziale incompatibilità antropologica fra tradizione religiosa romano-cattolica e individualismo democratico-liberale. In realtà non di incompatibilità si trattava, ma di difficoltà storiche e antropologiche ben maggiori rispetto a quelle incontrate nei paesi di tradizione riformata sì, tanto che in altri paesi cattolici, anche europei, tali difficoltà sono state superate appunto solo nell’ultimo quarto del XX secolo, e solo dopo, fra l’altro, il secondo Concilio Vaticano, il riluttante parziale venire a patti della Chiesa romano-cattolica con la modernità politica liberale e occidentale, e dopo l’avvento e il consolidamento del processo di secolarizzazione.

 

Il ripudio del laicismo e del Risorgimento

 

Non meno importante per un uso criticamente avvertito del termine “laico” è tener conto dei condizionamenti che derivano dall’attualità politica dell’Italia contemporanea. Anni fa, dovendo costruire una coalizione che si contrapponesse al centrosinistra, Silvio Berlusconi mise insieme uno schieramento alternativo di destra con quel poco materiale che gli poteva (quasi letteralmente) “passare il convento”: si inventò una forza politica di destra che si definiva liberale raccattando attorno ad essa neofascisti, clericali e leghisti. Trovato lo schieramento, si trattava di conferirgli qualche plausibilità intellettuale: operazione che i chierici di questo paese non hanno mai reso troppo problematica. Da un lato si trattava di giustificare in qualche modo l’alleanza con gente che fino a pochi mesi prima faceva il saluto romano e, fin dal nome di Movimento Sociale Italiano, si proclamava orgogliosa erede del nazifascismo repubblichino; dall’altro si trattava di agganciare, di fronte a una società da sempre poco incline all’associazionismo civile, una Chiesa cattolica che resta, pur con il suo peso drasticamente ridimensionato dall’inesorabile avanzare della secolarizzazione, uno dei pochi gruppi organizzati in grado di convogliare qualche migliaio di voti che in molti collegi possono risultare determinanti per la vittoria dell’uno o dell’altro schieramento.

Di qui la pronta offerta di ciò che il mercato politico richiedeva. La demitizzazione dell’antifascismo come ideologia, il riconoscimento cioè del suo carattere composito e della contraddittoria compresenza al suo interno di componenti liberali e democratiche accanto al ben più forte elemento comunista, ancora pienamente radicato, durante la Resistenza, nella sua originaria identità totalitaria, era ormai matura e inevitabile. Ma non vi era motivo perché tale demitizzazione dovesse anche sfociare in una vera e propria rivalutazione strisciante, anzi ormai aperta, del fascismo storico; perché il carattere dittatoriale e liberticida del fascismo venisse sostanzialmente banalizzato e giustificato dalle contraddizioni proprie del fronte opposto dopo il 1941 e l’attacco tedesco all’Unione Sovietica; perché in nome della critica dell’antifascismo si riducesse il ventennio fascista, la distruzione della democrazia liberale in Italia, il rinnegamento del Risorgimento nella sua vocazione occidentalista e liberale, a un fenomeno dopo tutto non così deplorevole, comunque di complessa valutazione etico-politica, nel quale ricercare “equanimamente” luci e ombre, e i cui “eccessi” venivano in sostanza giustificati dalla minaccia bolscevica.

Simmetricamente, si è rinnegata – in modo molto più esplicito di quel che non avesse mai fatto il fascismo – l’intera tradizione liberale del Risorgimento e si lamenta che lo Stato italiano sia stato costruito in contrapposizione ai più profondi convincimenti religiosi del popolo e alle identità regionali e contadine premoderne, creando così le premesse di un debole senso di appartenenza nazionale e di civismo. Si cancella così un dato di fatto monumentale nella storia del liberalismo europeo: il fatto cioè che, fino al sorgere dei totalitarismi del XX secolo, la Chiesa romano-cattolica era stata per tre secoli il grande antagonista storico del liberalismo, il Grande Altro, portatore di una opposta proposta di civiltà, di opposti rapporti umani, di un’opposta antropologia culturale[25]. Lamentare che la nazione non sia stata costruita sotto l’egida della Chiesa del Sillabo anziché combattendola e contrapponendovisi, equivale a rammaricarsi che l’Italia si sia costituita come paese moderno e liberale, anziché come elemento politicamente estraneo alla vita civile dell’Europa occidentale. Ipotesi proponibile solo a un’opinione pubblica convinta che l’identità della Chiesa romana sia sostanzialmente da sempre quella emersa dopo il Concilio Vaticano secondo e ignara di ogni precedente vicenda: tanto che le appaiono incomprensibili deviazioni, anziché manifestazioni di una secolare coerenza oscurantista e autoritaria, gli squarci di cruda verità storica rivelati episodicamente dalle cronache (come è accaduto in occasione della beatificazione di Pio IX o dei reiterati mea culpa del Pontefice per le passate malefatte dei cattolici – ma non per le proprie, per quelle dei cattolici di oggi, e neppure per quelle della Chiesa di ieri). La Chiesa sotto la cui egemonia il revisionismo antirisorgimentale si rammarica che l’unità nazionale non sia stata realizzata è quella che nutriva un’avversione così feroce nei confronti dei diritti umani e delle minoranze da non avere ancora digerito l’emancipazione civile degli ebrei neppure dopo un secolo: tanto da auspicare il parziale mantenimento in vigore delle leggi fasciste di discriminazione razziale anche dopo la caduta del regime e mentre era ancora in corso lo sterminio degli ebrei[26]. Si tratta di un intero colossale e vergognoso capitolo della storia d’Italia e d’Europa, la cui rimozione non è certo meno scandalosa di quella degli eccidi nelle foibe carsiche di cui si è tanto intensamente discusso negli ultimi tempi.

È tornato di gran moda, in questo clima, citare, del tutto a sproposito e per lo più palesemente senza averlo mai letto, il Croce del «perché non possiamo non dirci “cristiani”»[27] come se corrispondesse a un «perché dobbiamo essere tutti cattolici romani». Non sarà allora inutile ricordare che, in un’opera di ben altro impegno, lo stesso Croce aveva definito «il cattolicesimo della Chiesa di Roma la più diretta e logica negazione dell’idea liberale […] che tale si sentì e si conobbe e volle recisamente porsi fin dal primo delinearsi di quell’ideale, tale si fece e si fa udire con alte strida nei sillabi, nelle encicliche, nelle prediche, nelle istruzioni dei suoi pontefici e degli altri suoi preti, e tale (salvo fuggevoli episodî o giuochi di apparenze) operò sempre nella vita pratica, e può per tal riguardo considerarsi prototipo o forma pura di tutte le altre opposizioni e, insieme, quella che, col suo odio irremissibile, mette in luce il carattere religioso, di religiosa rivalità, del liberalismo» [28].

 

Il liberalismo ridotto a generico moderatismo

 

Se però è stata l’attualità politica a suggerire questa riabilitazione del fascismo e del clericalismo all’insegna del “moderatismo”, non è che non ve ne fossero già le premesse nel carattere debole e sostanzialmente subalterno della tradizione liberale moderata italiana, cui il liberalismo della Destra storica è sempre apparso eccessivo, sconsiderato, scapestrato. È anzi stupefacente come questa parte della cultura liberale italiana abbia fatto propria l’equazione, a suo tempo formulata polemicamente dalla cultura marxista, fra il liberalismo e un generico moderatismo, del tutto neutro rispetto a valori e principi tradizionalmente propri del liberalismo, anche di quello orientato a destra. Qualunque posizione “moderata”, su qualunque argomento, passa, nell’Italia di oggi, per liberale. Alla stregua di questo criterio, in un paese in cui fosse ampiamente diffuso l’antisemitismo, un vero “liberale” dovrebbe rifuggire dagli opposti estremismi costituiti dall’antisemitismo radicale e dal ripudio di ogni antisemitismo, per riconoscersi in un equilibrato e ragionevole “antisemitismo moderato”. Questi liberali, che in nome del moderatismo sono anche arrivati a rinunciare a ogni franca professione di liberismo, per accodarsi alla riscoperta berlusconiana di Röpke, della “economia sociale di mercato” e della “dottrina sociale” della Chiesa romana, trovano particolarmente congeniale l’appiattimento sul tradizionalismo cattolico, a torto ritenuto coincidente con il centro dell’elettorato. Non che manchino precedenti, nella tradizione del liberalismo italiano, di queste posizioni, conciliatoriste prima ancora del patto Gentiloni; ma arrivare a dire che l’avversario principale del liberalismo sarebbe il laicismo sembra davvero superare ogni possibile paradosso.

L’affermazione è di Nicola Matteucci, uno dei pochi intellettuali italiani a non essersi scoperti liberali solo a crollo del muro di Berlino avvenuto. Secondo Matteucci, «il laico riconosce il primato morale della coscienza dell’individuo, il laicista considera invece lo Stato come il solo interprete della verità»[29]. Un’affermazione che accetta la sovrapposizione di concetti che la cultura cattolica si è costruita a uso polemico, e che identifica nel laicismo non già la teoria della neutralità dello Stato rispetto alle confessioni religiose, volta a garantire la pari libertà di credenti e non credenti, bensì l’assunzione di un’ideologia di Stato che si sovrapponga alle coscienze individuali con la forza della legge, proprio come un tempo (un tempo?) pretendeva di fare la Chiesa cattolica.

È davvero possibile che confusioni così maliziose non siano semplicemente il frutto di un eccesso di passione politica, sconfinante in quel settarismo che i moderati sono soliti rimproverare proprio ai “laicisti”? Non c’è comunque da stupirsi, se queste sono le posizioni dei pochi liberali doc del centrodestra italiano, che il mondo cattolico ad essi alleato si senta legittimato a promuovere la demonizzazione e il ripudio dell’intero Risorgimento e, con esso, del liberalismo di destra assieme a quello di sinistra: di Cavour non meno che di Cattaneo. Ed è appunto, se non il ripudio auspicato da Biffi e Buttiglione[30], la critica demolitrice del Risorgimento, fallito per aver voluto costruire la nazione in contrapposizione al sentimento religioso del popolo italiano, il punto d’arrivo della polemica antilaicista dei “liberali moderati”[31].

 

Non tutte le tradizioni religiose sono uguali

 

Si potrebbe semplicemente replicare che questa polemica arriva fuori tempo massimo, a un quarto di secolo di distanza da quel referendum sul divorzio che rivelò a se stesso un paese in cui la secolarizzazione era già allora altrettanto avanzata quanto nel resto dell’Europa occidentale, come la classe politica e i media si ostinavano a non voler vedere, come gli studiosi non sembravano ancora aver capito, come doveva confermare pochi anni dopo anche il referendum sull’aborto e come da allora continuano ad accertare ripetuti e ricorrenti sondaggi di opinione[32]. Sennonché questa polemica sulla storia e sull’identità della nazione italiana serve a ricordare come non tutte le tradizioni religiose siano ugualmente inclini a conciliarsi con l’antropologia individualista e con il radicamento della cultura politica diffusa nella fede nella libertà di coscienza e nella responsabilità degli individui che reggono il funzionamento e garantiscono la solidità delle società laiche e liberali in Occidente.

C’è poco da lamentarsi che altrove la democrazia liberale sia sorta e si sia consolidata dal seno stesso della coscienza religiosa e che questo non sia avvenuto in Italia; e d’altra parte è smentita dalla geografia politica del pianeta l’asserzione secondo cui sarebbero le “religioni monoteistiche” l’ostacolo all’affermazione di società libere e democratiche, dato che, all’opposto, non sembrano esistere consolidate società democratiche che non siano di tradizione giudaico-cristiana occidentale[33].

Il punto è che, nonostante la melassa ecumenista di questi ultimi decenni abbia rimosso la consapevolezza delle differenze profonde fra i principi ispiratori della Chiesa cattolica e delle Chiese della Riforma perfino da gran parte della storiografia contemporanea[34], la democrazia liberale si è venuta a costituire non come frutto sperimentale dell’applicazione di dottrine politiche preconfezionate da parte di filosofi protoilluministi o come prodotto corale e comune di tutte le società europee, ma come conseguenza (inizialmente) inintenzionale di eventi, principi e prassi organizzative scaturiti dalla Riforma protestante: dalla riforma morale della coscienza individuale, sola di fronte a Dio, di fronte alla sua legge come alla sua giustificazione, e dalla convinzione della incoercibilità della coscienza suscitate dalla Riforma; dalla libertà di ricerca e dal fallibilismo teologico conseguenti al principio della “sola Scriptura”; dal pluralismo denominazionale conseguente a quelle premesse; dall’ecclesiologia democratica di alcune Chiese che se la dovettero costruire perché prive della struttura gerarchica cattolica e critiche nei confronti delle nuove Chiese di Stato sulla base degli stessi principi di libera ricerca della verità (cristiana) che avevano provocato la rottura di queste con Roma. Che questo percorso sia stato tutt’altro che lineare è fin troppo ovvio; che anche nella storia del protestantesimo siano stati ampiamente compresenti spinte e momenti di estrema intolleranza, autoritarismo e fanatismo lo è altrettanto; che se ne possa contestare la sostanziale realtà mi sembra contraddetto dall’intera storia delle origini del liberalismo europeo nell’Inghilterra e nell’Olanda del Seicento e nel costituzionalismo americano.

È per questo che, in quei paesi, lo stesso termine “laicismo” è estraneo alla lotta politica, e addirittura di difficile traduzione nelle rispettive lingue. In quei paesi il principio della libertà e della responsabilità degli individui è ormai radicato nell’ethos pubblico oltre che nelle istituzioni. Dove il liberalismo – almeno come work in progress – ha pervaso di sé l’intera società civile, le stesse strutture educative minoritarie cattoliche non corrono lo stesso rischio di divenire isole di intolleranza che corrono in società di tradizione controriformista e il pluralismo religioso può davvero esplicare la funzione vivificante descritta da Tocqueville.

Nei paesi di tradizione romano-cattolica la democrazia liberale non ha potuto svilupparsi a partire dalla “coscienza religiosa del popolo”, ma ha dovuto affermarsi in modo assai più contrastato e problematico: attraverso sconvolgimenti rivoluzionari accompagnati dall’invenzione di una religione della Ragione e massacri di preti e vescovi refrattari in Francia, attraverso l’iniziativa illuminata di élites politiche relativamente ristrette in Italia. Negli altri paesi cattolici, anche europei, la democrazia liberale si è potuta sviluppare solo con più di un secolo di ulteriore ritardo, e in alcuni di essi il processo non può ancora dirsi concluso, nonostante che, a partire dall’ultimo Concilio, la Chiesa cattolica si sia adattata, almeno a parole e nelle proclamazioni di principio, a venire a patti con la democrazia liberale, dopo averla combattuta per tre secoli. Mentre, nei paesi di tradizione ortodossa, i presupposti antropologici e culturali per la costruzione di una società libera si sono rivelati così carenti che solo la Grecia, solo con molti limiti (anche, in particolare, nel campo della libertà religiosa) e solo per effetto di una crisi internazionale che ne destabilizzò la dittatura, è giunta a darsi istituzioni libere nell’ultimo quarto del XX secolo. E si attende ancora una società aperta capace di affermarsi in un paese di tradizione islamica. (Un punto quest’ultimo su cui sarà il caso di ritornare in modo più disteso).

 

Il laicismo torna ad essere condizione di libertà nelle società multiculturali

 

Sarebbe quanto di più antilaico e illiberale, naturalmente, pretendere, come pure è stato proposto da un cardinale della Chiesa romana, di discriminare i singoli individui sulla base della loro nascita all’interno di culture autoritarie o sulla base della loro affiliazione religiosa (tra l’altro, componibile nel modo più vario, e più o meno contraddittorio alla stregua dei nostri criteri di coerenza, nella personale visione del mondo di ciascun singolo individuo). Su questo non possono esservi equivoci di sorta – non certo da parte nostra. Ciò non toglie che ragionare sulle influenze culturali e antropologiche delle tradizioni religiose sui valori etico-politici sia necessario sia alla comprensione storica, sia per valutare quanto poco “vieto” stia ridiventando il nostro laicismo nelle società multiculturali verso cui ci stiamo avviando.

Se infatti, negli ultimi decenni, la relativa evoluzione della Chiesa romano-cattolica postconciliare poteva far sembrare meno impellenti e alla fin fine meno drammatici, almeno all’atto pratico, i dilemmi legati al conflitto fra laici e clericali, non è solo la rinnovata prepotenza giubilante e revanscista di questa Chiesa che conferisce nuova attualità al laicismo, ma anche la nuova presenza di tradizioni religiose non autoctone e talvolta ancor meno disponibili della Chiesa romana a venire a patti con la modernità politica, con le libertà individuali legate al processo di secolarizzazione e con i diritti individuali dei soggetti cui tali tradizioni non riconoscono pari dignità sociale né legittimità alla protezione giuridica assicurata loro in Occidente (apostati, minori, donne, omosessuali).

Sarà forse anche vero che la condizione di un adolescente cui i genitori abbiano imposto l’iscrizione a una scuola confessionale cattolica non è più quella di totale soggezione a un insegnamento dogmatico e indiscutibile (che gli stessi cattolici non potrebbero che riconoscere controproducente nell’Occidente contemporaneo); magari costui non sarà più neppure costretto a partecipare in modo non volontario a pratiche di culto: per quanto ispirata, come la scuola delle società totalitarie, a una sola e indiscutibile verità, nella società aperta la scuola cattolica non potrà essere un vero microcosmo totalitario, ma al massimo un’isola di anacronistico autoritarismo ideologico. Ma, a parte il fatto che la questione di principio non è mutata di una virgola neppure per lui (e a parte il fatto che, se per avventura si tratta di un adolescente omosessuale, la scuola confessionale cattolica può facilmente traumatizzarlo per l’intera esistenza), che dire del suo coetaneo islamico mandato a frequentare una scuola confessionale musulmana, o di quello che la famiglia pretenda di educare al “patriottismo padano”?

La questione del laicismo sta insomma riassumendo drammatica attualità non solo a causa del revanscismo giubilare della gerarchia cattolica e delle prospettive insperate ad esso spalancate dal servilismo della classe politica e dei media, ma anche perché, nello stesso tempo, è ridivenuta centrale per definire la stessa identità comune del paese e per stabilire i criteri di integrazione nei diritti di cittadinanza. Più che di indignarsi delle “ingerenze” e delle presunte violazioni del Concordato[35], si tratta da un lato di non fare del cattolicesimo romano un elemento definitorio dell’identità nazionale tale da escludere da una piena appartenenza alla stessa comunità nazionale i non credenti, gli appartenenti alle minoranze religiose autoctone (ebrei e valdesi) e gli immigrati non cattolici che pure ottengano la cittadinanza[36]; e dall’altro si tratta di impedire che il prezzo da pagare per l’integrazione degli immigrati sia un riconoscimento e una legittimazione di culture e comportamenti autoritari e prevaricatori all’interno delle loro comunità e famiglie, contrastanti con supremi principi costituzionali e con i valori etico-politici tipici e propri dell’Europa liberale. Come afferma la Società laica, «la rivendicazione della più radicale laicità delle istituzioni repubblicane, lungi dal costituire la riproposizione di antiche e superate divisioni, è la condizione necessaria e primaria affinché la nuova società multiculturale non si trasformi in un assemblaggio di microcomunità integraliste e settarie, ostili fra loro o meramente conviventi nell'attesa d’essere abbastanza forti per sopraffarsi a vicenda».

Nella società multiculturale, la pretesa clericale di imporre il cammino a ritroso verso l’imposizione politica dell’agenda etica del cattolicesimo ufficiale, verso l’impossibile ripristino di legami sociali garantiti dalla comune adesione a valori religiosi anziché a valori civici, non può che tradursi alla fin fine, paradossalmente, nel crollo di ogni minimo comun denominatore di regole e valori di convivenza civile generalmente condivisi. Regole e valori che per noi oggi, come per gli uomini del Risorgimento e come per i ricostruttori di libere istituzioni dopo la catastrofe fascista, non possono che essere invece quelli (certo scarsamente autoctoni) della democrazia liberale europea: del parlamentarismo britannico, della Francia dei principi dell’89 e, per qualcuno, del federalismo repubblicano svizzero e americano, nell’Ottocento; quelli acquisiti e consolidati nell’intera Europa occidentale, oggi.

L’Italia della cosiddetta “seconda repubblica” è già abbastanza povera di un comune tessuto di valori civili condivisi, già abbastanza incerta sulla sua appartenenza culturale all’Occidente liberale e democratico, per non doverle preparare, in nome del ritorno alle proprie genuine radici nazionali e popolari, un futuro nelle intenzioni artificiosamente ricattolicizzato dalla politica, “libanese” o “bosniaco” nei suoi prevedibili esiti.

Felice Mill Colorni

Da Critica liberale, numero monografico, n. 67, gennaio 2001.

 



[1] Eppure per i giornalisti italiani, per i quali laico è sinonimo di miscredente, «la Lega resta un movimento laico, che cerca da anni con grande fatica una presenza spirituale nel suo paesaggio storico e mitologico raffazzonato». Così Ezio Mauro in un editoriale di Repubblica del 17 ottobre, Chi tace davanti a Bossi il crociato. E ciò perché «naturalmente c'è ben poco di religioso in questo atteggiamento» [la nuova politica clericale di Bossi, n.d.r.]: per il direttore di Repubblica, se ne deduce, essere laici è materia di convinzioni in fatto di religione, non materia di decisioni e programmi politici, e si può quindi essere considerati laici anche propugnando un programma politico clericale, purché si sia miscredenti.

[2] Si tratta cioè, in un certo senso, proprio di una fede che «riconosce l’ateismo della ragione»; come quella che auspica, ai fini di un possibile incontro nella prassi sociale o politica, Paolo Flores d’Arcais, Dio esiste?, Micromega n.2/2000, pp.39s.; il quale però, coniugando la polemica – politica – laicista con quella – filosofica – ateista, finisce per privilegiare come interlocutori proprio gli uomini di chiesa cattolici, a cominciare dal cardinale Ratzinger, piuttosto che protestanti, ebrei credenti e cattolici critici.

[3] Vincenzo Cesareo e altri, La religiosità in Italia Milano, Mondadori, 1995; Franco Garelli, Forza della religione e debolezza della fede, Bologna, Il Mulino, 1996; Pietro Prini, Lo scisma sommerso. Il messaggio cristiano, la società moderna e la Chiesa cattolica, Milano, Garzanti, 1999.

[4] Una posizione che accomuna anche i cattolici che manifestano nella sostanza posizioni opposte negli esiti a quelle del magistero, guardandosi però dall’esplicitare tale contrapposizione: Enzo Bianchi, Cristiani, siate cittadini senza vangelo, La Stampa 31 gennaio 2001. A chi sia estraneo alla Chiesa romana, posizioni come questa, la cui eterodossia, almeno politica, è inevitabilmente destinata a essere colta da pochi, appaiono quasi una riedizione del nicodemismo cinquecentesco.

[5] Un esempio recente di questa tendenza alla caricatura dell’avversario è stato proposto dall’Avvenire, in un articolo in cui Rousseau e Hegel, il teorico della democrazia autoritaria e la bestia nera della società aperta di Karl Popper, venivano indicati come padri fondatori del liberalismo moderno, matrice a sua volta di ogni nefandezza totalitaria. Luigi Negri, Ma Rousseau ed Hegel prepararono l'avvento dei regimi. Nel liberalismo il tarlo del totalitarismo che può essere vinto definitivamente grazie al dialogo tra laici e credenti, Avvenire 15 novembre 2000.

[6] È questo, mi pare, il punto debole del recente contributo di Gian Enrico Rusconi, Come se Dio non ci fosse. I laici. i cattolici, la democrazia, Bologna, Il Mulino, 2000. Da un lato tale richiesta, rivolta ai cattolici, sembra francamente eccessiva; dall’altro, in realtà già ora, e già da tempo, la tecnica argomentativa dei cattolici allineati consiste nel cercare di convincerci delle loro ragioni non «facendo valere ragioni autoritative delle proprie verità di fede» (p.153), ma asserendo di parlare in nome della “natura” e spesso scadendo addirittura in maldestre elucubrazioni scientistiche, che sembrano la parodia del più stereotipato materialismo positivista ottocentesco.

[7] Così la pensava nella sostanza Guido Calogero, forse il più lucido e tenace assertore teorico e pratico del laicismo nell’Italia del dopoguerra, che lo identificava con «la libertà delle visioni del mondo [che] è la più fondamentale di tutte le libertà». Il principio del laicismo (1959), in Filosofia del dialogo, Milano, Comunità, 1969, pp.283s. Così anche Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, voce “Laicismo”, Milano, Tea, 1993 (ed. or. Torino 1971), p.518: «Il laicismo è, sul piano dei rapporti delle attività umane fra loro, ciò che la libertà è sul piano dei rapporti degli uomini fra loro». Sicché «i soli autentici avversari del laicismo sono gli indirizzi politici totalitari […] Un indirizzo politico totalitario può essere agevolmente riconosciuto proprio dal suo atteggiamento nei confronti del principio L.» Per René Rémond, La laïcité et ses contraires, in La laïcité, Pouvoirs n.75, cit., «alla laicità si contrappongono tutti i sistemi che aspirano a fondere l’individuo nella collettività». Convergenti le considerazioni di Luigi Ferrajoli, secondo cui il separatismo è un mero corollario del liberalismo politico e del positivismo giuridico. Stato laico e società multiculturale, intervento al convegno del 26 marzo 2000, La laicità in una società multiculturale, promosso dal Comitato torinese per la laicità della scuola, Laicità, n.2-3, giugno 2000.

[8] Pietro Adamo e altri, Modernità, politica e protestantesimo, a cura di Elena Bein Ricco, Torino, Claudiana, 1994, in particolare i saggi di Giorgio Tourn, Calvino politico, pp.15ss. e di Pietro Adamo e Giulio Giorello, La “tolleranza armata”. Politica e religione nella Rivoluzione inglese (1640-1660), pp.81ss. Su questo punto, ovviamente, la bibliografia potrebbe essere sterminata.

[9]Lucia Annunziata, Bossi, tra Robespierre e Friedman, intervista a Giuliano Amato, Corriere della sera 2 agosto 1993.

[10] Giuliano Amato, Dio, la Morte e il Mistero secondo il ministro dell’economia dall’omonimo volume collettaneo Mondadori, 1998, che riprendo dall’estratto offerto dal sito di Caffè Europa, 1999, si interroga, nel dialogo con gli interlocutori cattolici, sui «rischi che corre chi si è indurito nell’esercizio egoistico delle proprie libertà»; e si chiede «se il sogno di questi due secoli fondamentalmente europei e degli Stati Uniti d’America, che sono diventati il modello del mondo, sia stato e sia un sogno faustiano, una tremenda, esorbitante ambizione. Ogni tanto lo penso, ma mi rifiuto di crederlo perché credo profondamente nella libertà di tutti e di ciascuno». Non fino al punto, però, di non rammaricarsi che, “purtroppo”, la Costituzione italiana abbia impedito al suo Governo di vietare l’esercizio della libertà di riunione a Roma a chi non marciava in consonanza con gli obiettivi del giubileo cattolico. Non c’è da stupirsi che, incapace di vedere valori nel mondo laico, affascinato dal “giubileo dei giovani”, ad Amato non resti da far altro che esortare la Sinistra a «imparare dal Papa»: Massimo Giannini, Il Papa ci ha dato una lezione il centrosinistra impari da lui, Repubblica 22 agosto 2000. Anche fra gli uomini politici più navigati c’è chi è condannato ad avvertire sempre come irresistibile e incondizionato il fascino del capo carismatico, politico o religioso che sia.

[11] Neppure gli esponenti della gerarchia considerati più “aperti” e “progressisti” si sottraggono a queste posizioni: Davide Parozzi “Politiche più forti per la famiglia”. Martini: tutela per quella fondata sul matrimonio. No all’equiparazione ad altre forme, Avvenire 7 dicembre 2000, a proposito di un convegno organizzato a Milano dal cardinal Martini.

[12] Si vedano le polemiche sulla pillola del giorno dopo, riproposte dai giornalisti cattolici in occasione della conferenza stampa di fine anno del Presidente del Consiglio, e quelle che hanno avuto per protagonista il portavoce bioetico vaticano Sgreccia, ferocemente contrarie perfino al faticoso compromesso raggiunto in materia di clonazione terapeutica, per tener conto della zigotolatria cattolica. Stampa quotidiana 29 dicembre 2000.

[13] Condivisibili in merito (e non solo) le osservazioni di Stefano Levi Della Torre, Errare e perseverare. Ambiguità di un Giubileo, Roma, Donzelli, 2000, pp5s.

[14] Che l’Italia «non si [possa] più definire una nazione cattolica» lo riconoscono da vent’anni gli stessi vescovi italiani. Il giudizio, testuale, è di un editoriale della Civiltà Cattolica dell'ottobre 1983, cit. in Franco Garelli, Religione e modernità: il “caso italiano”, in La religione degli europei. Fede, cultura religiosa e modernità in Francia, Italia, Spagna, Gran Bretagna, Germania e Ungheria, Torino, Fondazione Agnelli, 1992, p.40.

[15] René Rémond, cit., che giunge ad affermare che «una certa interpretazione della laicità si tramuta nel suo contrario».

[16] Formula, come è noto, suggerita a Cavour dalle sue giovanili frequentazioni del protestantesimo liberale ginevrino. Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo (1810-1842), vol. I, Bari, Laterza, 1969, pp.304ss., 579ss.

[17] Jean Baubérot, La laïcité, quel héritage?De 1789 à nos jours, Genève, Labor et fides, 1990, pp.72ss.

[18] Ivi, p.71.

[19] Art.433-21 codice penale francese: mentre una norma analoga non compariva, in epoca preconcordataria, nel codice Zanardelli.

[20] Una ricostruzione della vicenda in Jean Baubérot, La laïcité, quel héritage?, cit., pp.95ss.; in chiave soprattutto giuridica in Yves Madiot, Le juge et la laïcité, Pouvoirs”, n.75, cit.

[21] Si veda la rassegna degli orientamenti della giurisprudenza francese in materia, in Yves Madiot, cit., miranti a favorire pragmaticamente la risoluzione negoziata dei problemi, caso per caso, contemperando la tutela della libertà religiosa con l’esigenza, ritenuta almeno altrettanto meritevole di tutela, di non recare intralci al regolare funzionamento dei servizi: un orientamento riconosciuto in conflitto con le più esigenti prescrizioni della Convenzione europea sui Diritti umani che, a differenza del diritto francese, fanno della libertà religiosa una «libertà di primo rango».

[22] Edoardo Tortarolo, Il laicismo, Bari, Laterza, 1998, pp.77s., sembra identificare queste due diverse anime del laicismo più con successive tappe di uno sviluppo sostanzialmente comune ai paesi europei che con caratteristiche proprie di diverse tradizioni nazionali. Mi pare comunque che le due diverse concezioni abbiano piuttosto lasciato una sorta di imprinting sulle diverse tradizioni laiciste: più individualistico-liberale in Italia, più statalistico-giacobina in Francia.

[23] E anche in Francia, del resto, il problema della definizione della laicità è tutt’altro che scontato, e presenta declinazioni in parte analoghe a quelle proprie dell’esperienza italiana. Ai complessi problemi storici e politici della laicità francese è stato dedicato il n.75, La laïcité, della rivista “Pouvoirs”, cit. La stessa interpretazione del significato del termine vi appare tutt’altro che univoca: così Alain Bergounioux, La laïcité, valeur de la République, ritiene di poter individuare all’interno della tradizione laica francese, strettamente intrecciate fra loro, «due concezioni filosofiche e politiche», l’una liberale, «che ragiona essenzialmente in termini di separazione» e l’altra che «vede nella laicità una morale razionale pienamente capace di organizzare tutta la società»; viceversa il politologo québécois Jacques Zylberberg, Laïcité, connais pas, assumendo come paradigmatica l’idea, che definirei “direttiva”, della laicità alla francese, ne deduce la totale assenza di laicità in Germania, Canada, Stati Uniti e Gran Bretagna: talché la laicità sarebbe, al di fuori della Francia, «inesistente attualmente in Occidente»; allo stesso modo il giurista Yves Madiot, Le juge et la laïcité, cit., proprio perché evidentemente dà per scontata l’idea “francese” della laicità, la dichiara inesistente in tutti i paesi confinanti con la Francia (Italia espressamente inclusa, nonostante la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale italiana), e ciò benché definisca flessibile [souple] l’applicazione giurisprudenziale del principio di laicità francese. Contra, Dominique Schnapper, La communauté des citoyens. Sur l’idée moderne de nation, s.i.l., Gallimard, 1994, pp.122ss., che, pur rilevando la particolare “brutalità” dell’esempio francese, riconosce nel laicismo un «principio costitutivo della nazione democratica», comune agli altri paesi occidentali. Michel Wieviorka, Laïcité et démocratie, nel citato numero di Pouvoirs, indica come significato originario della laicità in Francia «la subordinazione del religioso al politico», mentre nel Novecento l’esigenza di garantire la libertà di coscienza prevarrebbe su quella di contrastare la religione, senza peraltro realmente soppiantarla del tutto – non senza che l’emergere della presenza islamica scomponga gli schieramenti tradizionali. Significativamente, per quest’ultimo autore, «la nozione di laicità rinvia all’idea di Stato ben più […] che alla democrazia», e andrebbe pertanto riformulata tenendo conto dei nuovi «attori identitari che chiedono di essere riconosciuti nel loro particolarismo». Opposto e rigidissimo il punto di vista di Alain Finkielkraut, La laïcité à l’épreuve du siècle.

[24] È il giudizio difficilmente contestabile di Guido De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Milano, Feltrinelli, 1962 (ed. or. Bari 1925), p. 266. Ed era la ragione, comprensibile dal loro punto di vista, della critica al Risorgimento da parte dei nazionalisti italiani alla Alfredo Rocco, fatta propria dal fascismo. Non è difficile vedere nella rimessa in discussione del Risorgimento negli ultimi anni un’eco anche di tali posizioni.

[25] Ha ripercorso molte tappe di questa storia Daniele Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione. Studi sull'ideologia politico-religiosa di Cristianità, Torino, Einaudi, 1993.

[26] Il che si concretò in passi formali compiuti dal gesuita Tacchi Venturi presso il Governo Badoglio a nome della Santa Sede. Ruggero Taradel, Barbara Raggi, La segregazione amichevole. “La Civiltà Cattolica” e la questione ebraica 1850-1945, Roma, Editori riuniti, 2000, pp.146ss.: ma tutto questo volume meriterebbe di essere raccomandato all’attento studio dei nuovi revisionisti antirisorgimentali.

[27] Fra rigorose virgolette nell’originale (1942), ora in Benedetto Croce, La mia filosofia, Milano, Adelphi, 1993, pp.38ss.

[28] Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari, Laterza, 1965 (ed. or. 1932), p.22.

[29] Nicola Matteucci, Perché non possiamo non dirci liberali, Il Giorno 15 ottobre 1999.

[30] Giacomo Biffi, Risorgimento, stato laico e identità nazionale, Casale Monferrato, Piemme, 1999; Rocco Buttiglione, prefazione a Angela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali & massoni contro la Chiesa, Milano, Ares, 1998.

[31] Ernesto Galli della Loggia, Liberali, che non hanno saputo dirsi cristiani, Il Mulino n.349, sett-ott 1993. Ma la «fragilità morale della società italiana» non nasce affatto in conseguenza dello scontro fra Chiesa cattolica e Stato unitario, ma è un dato antropologico costitutivo della società italiana in età moderna, verosimilmente preservato innanzitutto dalla tradizione religiosa popolare del cattolicesimo controriformista, che il Risorgimento non è stato semplicemente in grado di modificare. Carlo Tullio-Altan, La nostra Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall'Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1986, pp.22ss.

[32] Un recente sondaggio commissionato dal “Polo laico” potrà a qualcuno apparire viziato dagli intenti del committente. Pierluigi Battista, Laici d’Italia. Sessualità e costume: anche la destra ascolta poco la Chiesa, La Stampa 23 novembre 2000. Ma a conclusioni non diverse sembra pervenire lo studio di un sociologo tutt’altro che “laicista”. Franco Garelli, I giovani, il sesso, l’amore, Bologna, Il Mulino, 2000.

[33] Amartya Sen, in Laicismo indiano, a cura di Armando Massarenti, Milano, Feltrinelli, 1998, esprime un punto di vista molto più ottimistico. Quello della ricerca delle radici non solo della società aperta, ma dello stesso “disincanto” moderno e post, della secolarizzazione e laicizzazione, in principi e sviluppi interni alla stessa tradizione giudaico-cristiana, a cominciare dall’incarnazione e dalla kenosis, è un topos molto frequentato della cultura contemporanea, su cui, come è ampiamente noto, si è in particolare soffermato in questi ultimi anni Gianni Vattimo, in particolare in Credere di credere, Milano, Garzanti, 1996; ma anche, da una diversissima prospettiva e in relazione soprattutto all’ebraismo, Sergio Quinzio, Radici ebraiche del moderno, Milano, Adelphi, 1990. A parte l’eventuale sottovalutazione dello specifico apporto della Riforma, si tratterebbe comunque di sviluppi possibili, ma niente affatto necessari, vista l’opposta direzione in cui è andata nel frattempo la storia politica e culturale dei paesi di tradizione cristiana ortodossa e bizantina.

[34] Significativa a questo proposito, proprio perché si tratta di un volume che mira a fornire un inquadramento generale dello stato degli studi, la pur equilibrata sintesi del dibattito storiografico in materia offerta dallo storico cattolico Paolo Prodi, Introduzione allo studio della storia moderna, Bologna, Il Mulino, 1999, pp.63ss.

[35] Ingerenze difficilmente eccepibili sul piano giuridico nei confronti di organi della Chiesa cattolica italiana come la Cei, anche quando si concretino in interventi di bassa manovalanza politica; censurabili, ma non sulla base del Concordato dell’84, se attuate dalla Santa Sede come soggetto di diritto internazionale.

[36] Questa pretesa coincidenza fra comunità nazionale e comunità cattolica sembra il presupposto dei tentativi di sfondamento contro la «residua cultura laicista» (Sorge, sic) avanzati da alcuni esponenti cattolici, pronti a cogliere tempestivamente il destro offerto dai “laici” che ripropongono il cattolicesimo come elemento definitorio dell’identità nazionale. Bruno Forte, La garanzia del Concordato, Il Mattino 21 gennaio 2001; Bartolomeo Sorge, Laici o cattolici? Cittadini, Aggiornamenti sociali n.1, gennaio 2001.



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