Un’Italia
europea per un’Europa federale.
La proposta di LibMov per una riaggregazione dei liberali italiani
Relazione di Giulio Ercolessi.
I
vent’anni che abbiamo
alle nostre spalle sono stati anni perduti alle riforme, alla crescita,
allo
sviluppo, alla competitività, alla civiltà, alla
reputazione dell’Italia. Negli
ultimi vent’anni (per qualcuno di noi sono stati
più di trenta) noi
liberali siamo
stati politicamente homeless,
stranieri in patria
molto più ancora di quanto non fossimo già
abituati a esserlo da decenni. Non
crediamo che all’Italia questa nostra assenza abbia in alcun
modo giovato.
In
un mondo che è
diverso da quello che ci siamo lasciati alle spalle nel Novecento,
perché sono
cambiate le tecnologie del Novecento, perché è
cambiata la demografia del Novecento,
perché è cambiata la geopolitica del Novecento, e
perché viviamo in società
sempre più pluralistiche e secolarizzate, continuare a
vivere nel mondo
sviluppato significa per gli europei rispondere obbligatoriamente alle
sfide
costituite da questi cambiamenti, attrezzarsi per tenere il passo.
La
classe politica
italiana, nella sua larga maggioranza, ha invece creduto che fosse
possibile,
nella sostanza, continuare come prima. Piuttosto che impegnarsi per
riforme concrete
e necessarie, ha preferito baloccarsi e imbambolare il paese con
promesse
impossibili da mantenere e con continui progetti di sempre
“Nuove Repubbliche” in
cui la democrazia liberale venisse sostituita da forme di democrazia
plebiscitaria.
Piuttosto
che
impegnarsi in misure concrete per diminuire il peso
dell’intermediazione
parassitaria della politica e dell’amministrazione, gran
parte della politica
italiana ha preferito inseguire il populismo più grossolano
e l’analfabetismo
civile, ritornando, senza neppure averne la minima consapevolezza,
sulla stessa
strada della lotta contro la democrazia liberale, costituzionale e
rappresentativa che aveva segnato l’antiparlamentarismo
autoritario, dominante sulla scena politica italiana già
e proprio un
secolo fa: un
antiparlamentarismo anche allora simultaneamente alimentato da destra e
da
sinistra.
Buona
parte della
dirigenza politica italiana ha furbescamente preferito far credere che
il costo
della politica sia essenzialmente costituito dagli stipendi legalmente
riscossi
dai mille parlamentari, piuttosto che dal parassitismo delle miriadi di
enti pubblici
e parapubblici non elettivi ma inutilmente e dannosamente gestiti dalla
politica, dalle
finte
consulenze, dalla moltiplicazione dei consigli di amministrazione
nominati
dalla politica: dalla politica statale, regionale, provinciale e
comunale, in
modo invisibile agli occhi dei media e dell’opinione
pubblica. E gran parte
dell’opinione pubblica si è bevuta questa
sciocchezza.
Il
pozzo nero dei costi
della politica, molto più che negli indubbi sprechi della
politica ufficiale, legale
e visibile, va ricercato nella politica invisibile, sia illegale che
legale. Fanno
immensamente più danni all’economia di una regione
la corruzione endemica, i
legami di settori della politica con la criminalità
organizzata, le turbative
nelle gare di appalto; ma non meno le leggi scritte con i piedi, le
vessazioni
senza senso, l’inutilità di una giustizia civile
che decide una causa dopo
dieci anni quando va bene; e fa immensamente più danni il
consiglio di
amministrazione di un aeroporto costituito e guidato da ex politicanti
regionali con diploma di terza media, piuttosto che il numero magari
eccessivo
dei membri di un consiglio regionale o i loro stipendi – che
pure, nel caso dei
consiglieri regionali, sono senz'altro stipendi eccessivi.
Spesso
non è popolare
dire la verità piuttosto che compiacere gli umori
dell’opinione pubblica, ma,
come scrisse un ex ministro del tesoro oggi scomparso, «in
una democrazia non
vi sono solo compiti e diritti del popolo; vi sono anche compiti e
doveri delle
élites, senza il cui corretto esercizio la democrazia stessa
non produce
buongoverno e forse neppure sopravvive».
La
politica è anche
esercizio di leadership, non è solo attività per followers.
Chi
si compiace di
essere popolare, chi concepisce la politica come rincorsa dei risultati
dei
sondaggi di opinione, si farà sempre dettare
l’agenda dalla demagogia e dalla
ciarlataneria populista: come è accaduto in Italia negli
ultimi vent’anni, ma
come accade ormai troppo spesso anche in altri paesi europei
È
quanto è accaduto
nelle scorse settimane in Gran Bretagna, quando, di fronte a un
successo dei
populisti antieuropei del UK
Independence Party in una tornata amministrativa,
il Primo Ministro conservatore Cameron
ha dichiarato: «Abbiamo ricevuto il messaggio e ne terremo
conto». Il risultato
sarà che a decidere l’agenda politica della Gran
Bretagna nei prossimi mesi
non saranno i conservatori, i laburisti o i liberali, ma i populisti
antieuropei del UK Independence Party.
Ma
nel nostro paese è
la classe politica italiana nel suo complesso che si è
dimostrata non
all’altezza delle sfide del nostro tempo. Non sono state
soltanto, come si
dice, le “ideologie” totalitarie e totalizzanti del
Novecento a essere state
abbandonate. Si è persa qualunque griglia interpretativa
della realtà, e la
politica si è sempre più ridotta a scontro fra
personalità per lo più pateticamente modeste,
e a guerra fra mere cordate di interessi corporativi e politici per la
spogliazione delle risorse pubbliche.
Per
il resto, e il
resto non è stato gran cosa, la sinistra ha creduto non solo
di dover difendere
i suoi valori e i suoi principi, ma anche di poterlo fare utilizzando
gli
stessi strumenti che avevano funzionato nel Novecento. Non gli
strumenti della tradizione del socialismo in senso forte, tanto meno
del
comunismo, che la stessa storia del Novecento aveva liquidato senza
residui. Ma gli strumenti che avevano funzionato: quelli immaginati dai
liberali inglesi a partire
dall’età
vittoriana, e messi in pratica da Keynes e da Beveridge,
cioè quegli strumenti di intervento pubblico che nei
decenni
precedenti erano stati vituperati non solo dai comunisti, ma anche da
tanti
socialisti massimalisti, che accusavano proprio Keynes e Beveridge di
avere salvato il
capitalismo dal
suo crollo, impedendo così la nascita di una felice
società socialista globale.
La sinistra italiana faceva proprie quelle ricette ora, quando erano
venuti
meno i presupposti che avevano reso possibile il loro successo. Il loro
destino
è di essere in ritardo sempre.
Lo
schieramento
berlusconiano, cui non perdoneremo mai, forse più di ogni
altra cosa, e non è
certo dir poco, di avere usurpato e trascinato nel fango il nome dei
liberali, ha
addirittura creduto che fosse possibile per l’Italia del XXI
secolo mantenere
impunemente in vita quel perverso intreccio fra potentati e posizioni
di
dominio nella politica e nell’economia, che bloccano il
mercato, inibiscono la
concorrenza, annullano la mobilità sociale, asserviscono
l’informazione e la
pubblica amministrazione e svuotano la democrazia. Ma che altro poteva
fare
chi, al di là della retorica, prima di scendere in pista in
politica, aveva
tratto alimento e risorse per trent’anni per le sue
attività economiche dai
favori della peggiore politica della cosiddetta Prima Repubblica? E
infatti
quelli di Berlusconi, a dispetto di tutta la disinformazione e la
retorica, tanto
della destra quanto della sinistra, sono stati i soli governi
d’Europa di
questi vent’anni, e certissimamente i soli che avessero una
solida maggioranza
alla destra del centro, a non avere portato a buon fine una sola
liberalizzazione e una sola privatizzazione di rilievo: arrivando
addirittura a
criticare e perfino a ribaltare le poche e timide privatizzazioni e
liberalizzazioni
introdotte dagli stessi governi di centrosinistra.
Forse
più di ogni altra
cosa, più ancora degli accordi e dei buoni affari che
Berlusconi aveva stretto
con i comunisti della stessa Unione Sovietica quando il comunismo
c’era davvero,
a rivelare l’idea di “liberalismo” che
Berlusconi aveva in testa è stata una
conferenza stampa tenuta assieme al suo amico Vladimir Putin.
Annunciò in
quella occasione Berlusconi di avere appena acquistato una nuova villa.
Non per
farne un’ennesima magione privata, ma per insediarvi una
“Accademia del
Pensiero Liberale”, progetto che fortunatamente non ha poi
mai visto la luce. Il
primo docente che vi avrebbe invitato a tenere lezione, disse ancora
Berlusconi, sarebbe stato il suo amico Vladimir. L’amico
Vladimir ascoltò con
espressione che non si capiva se più compiaciuta o
esterrefatta, perché tutto
nella sua vita l’ex agente del KGB avrebbe pensato di poter
fare, tranne che il
docente di liberalismo, su invito di quello che pure era,
incredibilmente, il
capo dell’esecutivo di un paese occidentale.
E
Berlusconi non è
stato il solo in questi anni a volerci insegnare, con argomenti
altrettanto convincenti, che
cosa sia il liberalismo.
Gli stessi (comunisti, marxisti leninisti con e senza trattino, ex
democristiani, socialisti, perfino fascisti) che nei
trent’anni precedenti ci
accusavano, in quanto liberali, e non importa se liberali progressisti
o
moderati, di professare idee finite – come dicevano
– nella pattumiera della
Storia, da circa trent’anni pretendono di insegnare a noi che
cosa sia il
liberalismo.
E
ancora: siamo stati negli
ultimi vent’anni il solo paese del mondo in cui essere
transigenti o
intransigenti in materia di legalità e di etica pubblica
comportasse una
collocazione anziché un’altra sul continuum destra
/ sinistra.
Per
chi appartiene alla
tradizione liberale italiana, tanto nella sua versione moderata alla
Cavour o
alla Quintino Sella quanto nella sua versione radicale alla Cattaneo o
alla Cavallotti,
l’intransigenza in materia di legalità e di etica
pubblica è scritta nei
cromosomi culturali, tanto quanto il più rigoroso garantismo
in materia di
diritto penale. E le due cose coincidono, non sono l’una la
negazione o il
bilanciamento dell’altra.
In
realtà questa
catastrofe italiana viene da lontano Viene da almeno un terzo di secolo
di
inerzia e di mancate riforme. Successivamente, alla catastrofe civile
di
Tangentopoli non si era risposto con una presa di coscienza, ma con
altri diciotto
anni di diseducazione civica intensiva e di massa. In quei diciotto
anni è
stata coltivata l’idea, da paese sottosviluppato, che la
democrazia consista nell’eleggere
un capataz, dargli le chiavi e
consentirgli mano libera fino alla distruzione di un paese.
La
democrazia liberale
è l’opposto di questo. Il liberalismo è
innanzitutto la teoria della
limitazione del potere, e anche del potere democratico, come strumento
per la massimizzazione della
libertà di
tutti gli individui. Il liberalismo è l’esatto
opposto della
teoria berlusconiana dell’abbattimento dei limiti
costituzionali al potere politico
elettivo. Quest’ultima, piuttosto, era stata la teoria
costituzionale del
comunismo togliattiano.
Solo
due anni fa si era
aperto un primo spiraglio che poteva sembrare l’inizio di una
nuova stagione. Assieme
a tutti i nostri amici liberali europei, ci siamo allora idealmente
uniti al
coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, raccoltosi
davanti al palazzo
del Quirinale per intonare l’“Hallelujah”
di Haendel
il
giorno in cui Berlusconi si dimetteva e Mario Monti veniva chiamato a
sostituirlo.
Ma,
anche al di là dei
limiti di quel tentativo, in un anno e con quella maggioranza spuria,
si
poteva
solo cominciare a riparare alle conseguenze peggiori e più
imminenti del
disastro dei diciotto anni precedenti, e all’inerzia di
più di un terzo di
secolo, e alle tare storiche cui i nostri padri risorgimentali,
liberali,
repubblicani e radicali, avevano cercato di dare una risposta
centocinquant’anni
fa. Con un Risorgimento, che oggi è nuovamente necessario,
non con una mera
unificazione geografica della penisola.
Dopo
venti o trent’anni
in cui una glaciazione che sembrava senza fine ci ha costretti tutti a
dovere
andare faticosamente alla ricerca di un male minore, che era sempre
più arduo
riuscire a riconoscere, negli ultimi mesi qualcosa sembra forse
cominciare a
muoversi, e qualche spiraglio ad aprirsi.
Il
solo fatto che i
protagonisti del sistema non siano più due soltanto consente
forse qualche
margine di agibilità del sistema politico.
Con
la costituzione di
LibMov vogliamo dare un contributo di idee e vogliamo proporre un
modello. Anche
nei tempi migliori, anche con le migliori e più razionali
delle motivazioni, riunire
elettoralmente spezzoni di sistema politico non si è mai
rivelato fruttuoso. Oggi
il grave rischio sarebbe far mostra di voler riunire i naufraghi della
Zattera
della Medusa in cerca dell’ennesimo riciclaggio.
Il
modello che noi
proponiamo è diverso in questo: proponiamo che,
anziché riferirci alle
contingenze della storia politica recente, che spesso hanno diviso
artificialmente persone che alla fine la pensano in modo molto simile
su tutti
i temi di fondo, si possa oggi tentare di fare riferimento non al
nostro
passato, ma al nostro futuro comune: un futuro che sarà
europeo o sarà un
futuro di crescente sudditanza e di declino.
Nel
mondo globale i
nostri paesi europei, presi uno per uno, contano nel mondo quanto
contava
nell’Europa-mondo di allora il Belgio di Guy Verhofstadt
nella prima metà del Novecento:
un paese rispettato e considerato da tutti fra i più civili
e sviluppati del tempo,
ma che contava poco a causa delle sue piccole dimensioni e della sua
debolezza geopolitica:
e che un vicino prepotente e aggressivo non esitò a invadere
per due volte in
trent’anni, quando ritenne che ciò fosse utile ai
propri interessi nazionali di potenza.
Oggi nel mondo globale la dimensione minima per aver voce negli affari
del
mondo è quella europea.
Abbiamo
bisogno di
un’Europa federale perché solo così
avremo
un’Europa democratica. L’alternativa
è che tutte le più importanti decisioni europee
siano
assunte, come oggi
accade, in riunioni a porte chiuse fra 28 capi di Stato e di governo, e
che
i compromessi faticosamente raggiunti in quella sede non possano
più essere
messi realmente in discussione né dal Parlamento Europeo
né dai Parlamenti statali,
sotto il ricatto di una grave crisi delle istituzioni comuni.
Così la modalità ordinaria di produzione
normativa
dell’Unione assume di fatto
le forme di una continua legiferazione in forma di trattato
(sembra di leggere: «Piena e integrale
esecuzione è data all’allegato
…»), e senza che
i legislatori europei e statali
possano fare altro che ingoiare la pappa così come
pervenuta:
senza discussione
pubblica e democratica, senza possibilità di emendamenti.
L’ossessione per una sovranità che è
ormai, come
già vedeva Einaudi, soltanto «polvere senza
sostanza», non
è il rimedio, ma la causa del “deficit
democratico” dell’Unione Europea.
Ma
allora è tempo di
fare riferimento al sistema politico europeo che vogliamo e dobbiamo
costruire
anche nelle politiche interne dei nostri paesi.
Il
metodo che
proponiamo per preparare i liberali italiani alle prossime scadenze
è questo:
non la federazione delle correnti sulla base delle storie di
provenienza, ma
l’adesione al partito liberale europeo – e oggi
l’adesione all’ALDE, al nostro
partito europeo, si può fare su base individuale
–
come piattaforma comune e
condivisa. E la condivisione di quattro principi programmatici, che
segnino il
perimetro della nostra identità politica in Italia:
riprendere il
ruolo di stimolo e di
promozione dell’integrazione federale dell’Europa
che ha sempre caratterizzato
la politica dei governi italiani nel corso della cosiddetta
“Prima Repubblica”;
voltare pagina rispetto agli anni indecenti del berlusconismo;
liberalizzare l’economia
italiana – quali che siano le nostre diverse
sensibilità,
i diversi punti di vista, le
diverse sfumature in materia di liberismo e di dirigismo –
perché questo è il principale e necessario
strumento di lotta alla corruzione nell’Italia di oggi,
caratterizzata, come essa ormai è, da un degrado di
carattere più antropologico che
contingente della
larga
maggioranza
della classe politica, che non potrà certo essere rovesciato
dai
risultati di una tornata elettorale; e infine recuperare i decenni
perduti alla causa
della laicità
delle istituzioni pubbliche, e a tutte le libertà civili e i
diritti di
autodeterminazione individuale che ne discendono: in società
pluralistiche e
secolarizzate come lo sono oggi tutte le società europee,
compresa quella
italiana, solo la laicità intesa nel suo unico significato
saliente, cioè come
stretta neutralità religiosa delle istituzioni pubbliche,
è compatibile con la
libertà e con la pari dignità sociale di tutti i
cittadini.
È
sull’impegno per
un’Europa federale e su queste quattro priorità
che noi riteniamo che i
liberali italiani debbano oggi finalmente ritrovarsi: oggi fra loro,
per potersi
ritrovare nell’immediato futuro con i nostri amici di tutta
l’Europa liberale a
essere nuovamente protagonisti della politica e della storia, con i
nostri
principi, con i nostri valori politici e civili e con conseguenti
proposte di
riforma.
Non
riforme moderate,
ma riforme radicali. Il liberalismo non è affatto in
sé sinonimo di
“moderatismo”. Noi non siamo affatto moderati nella
nostra netta opzione per il
federalismo europeo. Non siamo moderati nella nostra altrettanto netta
volontà
di voltare pagina rispetto agli anni di fango del berlusconismo e alla
restaurazione delle regole del gioco della democrazia liberale e
costituzionale. Non siamo moderati nella nostra scelta per la
modernizzazione e
liberalizzazione della vita economica italiana e per il rilancio della
mobilità
sociale. Né siamo moderati nella nostra visione di uno Stato
laico e garante
della pari libertà e della pari dignità sociale
di
tutti i cittadini.
È
molto difficile, ma
l’alternativa per l’Italia e per l’Europa
è continuare sulla via del declino,
dell’impoverimento relativo, della perdita di influenza, fino
all’irrilevanza. Sapendo
che una società impoverita e rincitrullita
dall’analfabetismo civile dilagante produce
un’economia povera, un
welfare povero, un patrimonio culturale e ambientale
devastati, una democrazia precaria.
Noi crediamo che sia ampiamente venuto il tempo di un nuovo e necessario Risorgimento liberale in Italia e in Europa. E proponiamo un metodo di aggregazione politica nuovo e, ci sembra, all’altezza delle sfide del presente. Speriamo di essere in tanti a pensarlo e ad agire di conseguenza. Ma questo dipende soprattutto da tutti voi.
Il saluto del Presidente dell’ALDE Sir Graham Watson al convegno di Parma.
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