Trieste e il trattato di Osimo: contributo per una biografia politica e
intellettuale di Aurelia Gruber Benco
Quello che segue è un appunto redatto come testimonianza per
il volume
di Marina Silvestri "Aurelia Gruber Benco. Trieste,
l’identità
europea e la politica della cultura", biografia
dell’intellettuale e
donna politica triestina (1905-1995), pubblicato da Ibiskos Editrice
Risolo,
Empoli, 2009: testimonianza ampiamente ripresa dall’autrice
nel
capitolo dedicato alle vicende politiche triestine conseguenti alla
stipulazione degli accordi di Osimo fra l’Italia e la ex
Jugoslavia..
Per
tutto il periodo
della fase preparatoria, pre-elettorale, della storia di quella che
sarebbe poi
divenuta la Lista per Trieste, cioè nel periodo in cui non
si trattava ancora
di un movimento politico concorrente con gli altri partiti, credo si
possa dire
che Aurelia Gruber Benco sia stata la guida politico-culturale del
“Comitato
dei Dieci”, almeno quanto l’ex prosindaco
socialista dimissionario Gianni
Giuricin e il suo gruppo di amici usciti dal Psi ne aveva costituito il
nerbo
organizzativo.
I
partiti di quello che
si autodefiniva l’“arco costituzionale”,
con un’espressione mirante a
delegittimare implicitamente tutti gli oppositori a una maggioranza che
si
sarebbe voluta pressoché plebiscitaria, tentarono fin
dall’inizio di
appiccicare a quel gruppo certamente molto eterogeneo, ma di prevalente
matrice
laico-socialista (e che era stato in larga misura socialdemocratico
prima
dell’unificazione socialista degli anni sessanta)
un’etichetta nazionalista,
soprattutto ricorrendo al vecchio schema storiografico della
“borghesia
liberalnazionale”. Ci sarebbe moltissimo da dire su questa
categoria
interpretativa, per la verità molto radicata soprattutto
nella tradizione
politica e storiografica tedesca, ma è certo, a mio avviso,
che
quell’interpretazione fosse del tutto arbitraria almeno in
quella fase.
È
bensì innegabile che
l’iniziale ostilità di una parte rilevante di
Trieste all’annuncio del trattato
di Osimo si fosse rivolta proprio contro quello che appariva a prima
vista il
suo nucleo centrale – e che tale effettivamente era dal punto
di vista
geopolitico e internazionale – e cioè il
definitivo regolamento dei confini fra
l’Italia e la vecchia Jugoslavia. Un regolamento di confini
assurdamente
rinviato, essenzialmente per ragioni elettorali e clientelari, dalla
Democrazia
cristiana e richiesto con insistenza, e per ovvi e comprensibili
motivi, molto
più dall’Alleanza atlantica che da attori o da
ragioni di politica interna. Non
a caso, però, il gruppo di cittadini che diede vita al
Comitato dei Dieci non
incluse alcun tema di carattere esplicitamente nostalgico o
nazionalista fra i
tre principi guida della propria iniziativa (creazione di una zona
franca
integrale, difesa dell’ambiente del Carso e maggiore
autonomia amministrativa),
e neppure poi nel simbolo della LpT. Significativamente, non vi era
compreso
neppure un accenno alla problematica
dell’“italianità” di Trieste,
che pure risuonava
ampiamente nelle proteste popolari e sulle stesse pagine del quotidiano
Il Piccolo.
Al
contrario il
progetto di zona franca integrale, che in pratica (anche se i membri
del
comitato curiosamente rifiutavano questa interpretazione) era
contrapposto a
quello della zona franca industriale a cavallo del confine prevista da
un
protocollo allegato al trattato economico, riprendeva consapevolmente
un
vecchio progetto della sinistra triestina, e non certo a caso.
Ho
la presunzione di
ritenere che l’adesione radicale al progetto di legge, come a
suo tempo da me formulata
e motivata – adesione data, questa sì, indicando
esplicitamente nell’iniziativa
il miglior strumento politico per opporsi
all’industrializzazione del Carso – sia
stata determinante per il successo della raccolta delle firme, che
stava languendo
da qualche mese. E ciò non tanto per l’apporto
organizzativo del Pr, quanto per
il segno politico che l’iniziativa finiva così per
assumere: per una ragione di
immagine. Moltissimi fra gli elettori non di destra erano stati in
precedenza restii
a firmare. Molti di loro si convinsero in seguito
all’adesione, a livello
nazionale, di una forza politica all’epoca nettamente
percepita come schierata a
sinistra quale era il Pr, che rese inequivocabile il segno non
nazionalista (o
almeno politicamente eterogeneo) della protesta contro le clausole
economiche
del trattato, e in particolare contro la zona industriale carsica.
Altrettanto
importante per far breccia nell’elettorato non di destra fu
la serrata e
documentata opposizione di Wwf e Italia Nostra.
Non
è neppure vero che
gli sloveni fossero massicciamente favorevoli alla zona industriale. Al
contrario, tale progetto, certo fortemente sostenuto
dall’intero establishment politico-economico
della minoranza, largamente legato com’era al governo
jugoslavo, era vissuto
con enorme disagio da molti – forse dalla maggioranza
– degli sloveni del Carso.
E ciò sia in previsione dei necessari espropri di terreni su
larghissima scala,
sia per un riflesso “nordista”, di diffidenza per
un massiccio e prevedibile
flusso di immigrati dal sud della ex Jugoslavia: lo stesso riflesso che
si
sarebbe visto dispiegarsi anni dopo in tutta la Slovenia, in occasione
della
dissoluzione della ex Jugoslavia. Se questa diffidenza non era espressa
in modo
aperto, in una comunità che all’epoca riteneva un
dovere civico e nazionale mostrarsi
compatta e coesa agli occhi della maggioranza italiana, se ne vide bene
la
presenza nei risultati elettorali del 1978, che premiarono
particolarmente,
cosa non accaduta nelle elezioni politiche precedenti, proprio il Pr,
cioè il
partito contrario all’industrializzazione del Carso che
nessuno poteva neppure
lontanamente sospettare della più remota tentazione
nazionalista.
Soprattutto,
la
leadership del Comitato dei Dieci era nelle mani di esponenti politici
democratici, in gran parte di provenienza laico-socialista,
tutt’altro che
esterni o estranei ai principi della democrazia costituzionale e
repubblicana,
come lo erano invece tradizionalmente a Trieste gli ambienti del
nazionalismo
più passionale.
Del
resto, nella
protesta elettorale triestina del 1978, accanto
all’apprensione per le
circostanziate proteste di carattere ambientalista, avallate da un
documento
firmato da più di trecento docenti universitari gran parte
dei quali di materie
scientifiche, si aggiungevano con il passar dei mesi – e con
l’emergere, anche
grazie all’interessato sostegno del Piccolo,
dell’impegno radicale nella
vicenda – altre due ragioni tipiche di una
sensibilità progressista, o almeno tradizionalmente
molto più diffusa nel centrosinistra riformista che a
destra. Da un lato si
contestava la riproposizione fuori tempo massimo di un modello di
industrializzazione fondato sull’immigrazione massiccia di
manodopera
emarginata da zone depresse – con tutti i relativi problemi
tipici
dell’inurbamento forzoso e del relativo disadattamento
sociale diffuso – dall’altro
si rifiutava il carattere profondamente antidemocratico del metodo
adottato, che
aveva sovvertito violentemente ogni procedura democratica di
pianificazione
urbanistica e territoriale. Un metodo autoritario e paternalistico,
proprio di
una classe politica che, ritenendo le proprie posizioni di potere
garantite
dall’assetto complessivo del sistema politico e dai sistemi
elettorali, non si
riteneva in dovere di rispondere a nessuno: un paradossale giacobinismo
cattolico, radicato soprattutto nella componente morotea egemone della
Dc
triestina di allora. Credo che il Pr di Trieste abbia avuto una parte
determinante nel riformulare in tal modo una parte dei motivi della
protesta, e
nell’avere per conseguenza fatto venir meno molte remore
nella parte
antinazionalista dell’elettorato.
A
proposito della
procedura antidemocratica, va ricordato che il negoziatore Eugenio
Carbone, uomo
di Donat Cattin, funzionario del Ministero dell’Industria
incongruamente
sostituito dal governo ai negoziatori degli Esteri, e il cui nome
sarebbe in
seguito comparso negli elenchi della loggia P2 rinvenuti a Castiglion
Fibocchi,
aveva creduto di rassicurare i triestini, in un convegno organizzato
dalla Dc
locale, sull’idoneità del sito prescelto,
affermando di averlo accuratamente
ispezionato egli stesso nel corso di un suo sorvolo in elicottero!
Credo
però anche che
quell’errata interpretazione del movimento data dai partiti
tradizionali, come
“espressione della borghesia liberalnazionale”
abbia finito per operare come
una sorta di self-fulfilling prophecy.
Se non il momento della svolta, quello in cui la svolta ebbe inizio, fu
costituito
dalla lettera al Piccolo con cui in sostanza Manlio Cecovini, fino ad
allora
estraneo all’iniziativa, propose al Comitato la propria
leadership elettorale. Autocandidatura
accettata da un Comitato dei Dieci incerto e privo di una leadership
incontrastata, proprio perché eterogeneo e policentrico.
Grazie
alle sue
superiori capacità di intercettare gli umori populisti
(certo molto relativi,
se paragonati con quelli che avrebbero sommerso anni dopo
l’Italia), Cecovini
avrebbe finito ben presto per spodestare Aurelia dal ruolo di leader
politico-culturale della LpT e Giuricin da quello di capofila
elettorale.
Inoltre, a differenza di Aurelia, Cecovini sapeva giocare
(caratteristica
abbastanza tipica di molti esponenti del Pli di allora, a cominciare
dallo
storico segretario Malagodi, illuminato intellettuale
liberalconservatore nei
suoi libri e nei seminari culturali, ma assai più schematico
come uomo di
partito e di campagne elettorali) su due diversi registri, soprattutto
quando
trattava i problemi relativi a identità nazionale e
trattamento giuridico degli
sloveni: conservatore “illuminato” quando si
esprimeva da intellettuale e da
letterato, capace invece di vellicare un nazionalismo italiano
“di pancia”
molto diffuso (pur se alieno da estremismi) e un discreto qualunquismo
(nulla a
che vedere con la ciarlataneria politica italiana egemone negli anni
successivi, beninteso) quando si trattava di “fare
politica” e di parlare agli
elettori.
Aurelia
Gruber Benco,
anche se cercava di rappresentare tutte le anime del Comitato quando
parlava in
sua rappresentanza, era invece molto gelosa e consapevole delle proprie
radici
politico-culturali e del proprio passato laico-socialista (molto
più di
Cecovini, che, non solo per innato pragmatismo, aveva lasciato
largamente alle
spalle il suo passaggio nel vecchio Partito radicale del Mondo degli
anni
Cinquanta e si identificava semmai nel suo successivo approdo alla
destra
interna al Pli). Di qui la sua grande vicinanza ai radicali, accanto ai
quali
aveva preso posto nei banchi del Consiglio, riprendendo il seggio che
vi aveva
occupato da socialista parecchi anni prima.
E
di qui anche la
nostra decisione di candidare a sindaco, come nostra prima scelta,
proprio lei,
la terza degli eletti nella LpT, e “la più antica
militante del movimento democratico
e socialista presente in quest’aula”, come mi
espressi annunciando il voto
radicale, nella prima votazione (quella per cui sarebbe stata
necessaria la
maggioranza assoluta, di cui nessuna
coalizione disponeva in quel Consiglio).
Passo
passo nel corso
della consigliatura eletta nel 1978, l’ala laico-socialista,
che rappresentava ancora
almeno un terzo del gruppo, fu lentamente e progressivamente
emarginata; un
ampio potere di veto fu riconosciuto alla componente più
apertamente
nazionalista della LpT (rappresentata soprattutto da due dei suoi
consiglieri);
gran parte dei provvedimenti non di ordinaria amministrazione
corrispondevano
sempre più coerentemente agli orientamenti
politico-ideologici propri del
sindaco e degli assessori e consiglieri a lui più prossimi;
alla fine la LpT
finì per identificarsi largamente nella persona del sindaco.
Credo che a dare
una grossa mano all’affermarsi di questa egemonia della
vecchia destra
nazionalista-moderata sia stato proprio, con le sue continue accuse che
concorsero
a selezionarne nel tempo elettorato e classe dirigente, il cosiddetto
arco
costituzionale, e in particolare la Dc e il Pci dell’epoca.
In
realtà, più che una
contrapposizione fra la vecchia Trieste
“liberalnazionale” alla tedesca (nel
significato cioè che il termine aveva avuto nel mondo di
cultura tedesca
dell’Europa del XIX secolo, Austria-Ungheria e mondo slavo
occidentale
inclusi) e quella progressista, o ancor meno quella che si ispirava a
un mero lealismo costituzionale, la linea di frattura emergente
all’inizio era fra
il sistema politico
consociativo della cosiddetta “Prima Repubblica” da
una parte, di cui la
strategia del compromesso storico e delle larghe intese costituiva un
po’ il
canto del cigno, e tutti i suoi oppositori. Non è un caso
che la rivolta
elettorale triestina del 1978 si sia situata proprio nel momento in cui
il
continuo trend ascensionale del Pci, ininterrotto dal dopoguerra, aveva
subito
la prima battuta d’arresto, dopo il trionfo conseguito alle
politiche del ’76
assieme alla Dc: due mesi prima delle comunali triestine del
’78, alle elezioni
regionali valdostane e alle comunali di Pavia; pochi mesi dopo, a
novembre, di
nuovo con le regionali del Trentino-Alto Adige.
A
dare il colpo finale
al progetto di industrializzazione del Carso fu in effetti la minaccia
del
referendum consultivo. Questa fu però
un’iniziativa radicale – una mia mozione,
per la precisione, in seguito sottoscritta anche da Pannella
– a lungo
inizialmente osteggiata proprio da Cecovini, cui dovemmo produrre per
convincerlo due pareri di illustri costituzionalisti. L’esito
sarebbe stato
scontato, e la realizzazione del progetto di industrializzazione del
Carso,
sconfessato dalla larga maggioranza degli elettori, sarebbe risultato
improponibile. Ad affrettare i tempi e a rendere il referendum inutile
fu la
marcia indietro dei partiti tradizionali, determinata dai risultati
delle
elezioni provinciali del 1980, che dimostrarono come la rivolta
elettorale di
due anni prima non fosse stata una fiammata passeggera. Una mozione
votata in
Consiglio mise agli atti la contrarietà della
città alla realizzazione della
zona industriale sul Carso e chiuse nella sostanza la vicenda.
Alla
fine si rinunciò
anche a realizzare la zona industriale altrove (alle Noghere o in
provincia di
Gorizia): forse perché i partiti tradizionali, non avendo
mai davvero preso sul
serio le ragioni di carattere ambientale, socioeconomico e democratico,
forse
perché perfino incapaci di comprenderle, ritenevano che la
stessa opposizione,
vista come mero pretesto per esprimere una protesta ritenuta
sostanzialmente
nazionalistica, si sarebbe riproposta in modo identico.
E
fu un bene. Sarebbero
presto venuti meno i capitali necessari, di fronte alla crisi
energetica ed
economica e al costo (e agli smisurati sprechi e ruberie) del terremoto
dell’Irpinia. Si sarebbe forse spianata un’enorme
area di territorio a
beneficio di cementificatori amici della politica e poi si sarebbero
attesi invano
investimenti non più facilmente disponibili.
Ma,
soprattutto, una
seconda Trieste sul Carso, delle stesse dimensioni della
città e popolata da
tutte le nazionalità della ex Jugoslavia, sarebbe stata una
bomba ad orologeria
che avrebbe coinvolto anche il confine italiano e Trieste anni dopo, in
occasione della secessione della Slovenia. Ed era stata proprio Aurelia
Gruber
Benco, in un suo discorso in quel Consiglio comunale eletto nel
‘78, la sola ad
evocare, come ulteriore ragione di opposizione alla realizzazione della
zona
industriale sul Carso, la possibilità di una futura
dissoluzione violenta della
Jugoslavia, evento che all’epoca nessuno, o comunque nessun
osservatore,
studioso o politico di qualche rilievo, riteneva prevedibile o
possibile.
La
LpT sarebbe
sopravvissuta a lungo, con gli accordi elettorali con Craxi e poi con
la
sostanziale confluenza in Forza Italia, ma sarebbe stata ormai un
movimento
politico nettamente schierato nel centro-destra (per confluire infine
in una destra
antiliberale, populista, xenofoba ed extraeuropea come
l’attuale destra
italiana), lontana dai radicati orientamenti democratici largamente
prevalenti
fra le “persone per bene” dell’originario
Comitato dei Dieci.
A questi forse potrebbe, almeno in parte, meglio attagliarsi l’etichetta di “ceti medi riflessivi” con cui si allude oggi ai protagonisti delle proteste della società civile contro le malefatte di una politica degenerata – anche se va detto a posteriori che la degenerazione della politica di allora era ancora ben poca cosa rispetto a quel che avremmo dovuto sperimentare anni dopo.
Giulio Ercolessi, maggio 2009
Un articolo di Giulio Ercolessi che riassumeva la posizione radicale sul trattato di Osimo e sulle relative polemiche apparve nel dicembre 1976 sul trimestrale “Prova radicale”, diretto da Mario Signorino.
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