Ancora sul Pd e dintorni. Il Partito democratico può cambiare?


Quello che segue è l’intervento di Giulio Ercolessi nel dibattito a più voci sulle prospettive del Pd, aperto sulle pagine della rivista “Queste Istituzioni” dal direttore Sergio Ristuccia e già oggetto di un precedente dibattito svoltosi nella sede della rivista nel 2009, cui era poi seguito un ulteriore intervento del direttore nel numero gennaio-giugno 2011. Questo testo è stato scritto nell’ottobre 2011 (prima quindi della costituzione del governo Monti) e pubblicato, con il titolo “Prendere le misure della crisi in Europa”, nel n. 162 della rivista, datato luglio-settembre 2011, ma uscito nella primavera-estate dell’anno successivo.  

 
È possibile riformare in corso d’opera, e profondamente, un partito, e soprattutto un grande partito?

È questo l’interrogativo che suscita l’editoriale di Sergio Ristuccia, pubblicato nel numero 160-161 di “Queste Istituzioni”. Forse il pessimismo e l’ottimismo hanno a che fare più con la biochimica del cervello che con le analisi, le interpretazioni e le culture politiche, ma a chi scrive l’ipotesi di ristrutturare il Pd cammin facendo sembra impresa alquanto improba, e fa venire in mente i tentativi dell’ultima ora di mantenere in vita il nesso statuale austro-ungarico alla fine della Grande Guerra, cambiandone in corsa la ragion d’essere, da ultimo impero plurinazionale di fondazione premoderna a nucleo di un’unione federale democratica europea: c’è ancor oggi qualcuno che pensa che si sia trattato di una grande occasione mancata, e che enfatizza la presunta tolleranza di quell’impero – come pure di quello ottomano, e anche di quello romano – come il suo nucleo valoriale ed etico-politico identitario preminente, e ne immagina e descrive dilapidate virtualità progressive o postmoderne (già all’epoca vanamente ipotizzate).

È anche vero che la storia ha sempre più fantasia di chi pensa di poterla prevedere, nel bene come nel male, e che quindi non bisogna mai dare nulla per definitivamente scontato, ma, a quattro anni dalla fondazione del Pd, il suo imprinting sembra davvero difficile da rideterminare.

Per certi versi il Pd è stato in realtà un successo sorprendente, magari non un successo politico, ma un successo se valutato con i criteri della sociologia dei gruppi dirigenti: i vecchi gruppi dirigenti delle sue due componenti fondative – il Pci/Pds/Ds e la sinistra Dc – hanno saputo sopravvivere brillantemente alla catastrofe che ha travolto i loro partiti. Se i dirigenti e le burocrazie degli altri due partiti “eurocomunisti”, francese e spagnolo, o gran parte di quelli del Mrp francese, o dell’abortito tentativo di dar vita a una Dc spagnola di modello italiano nell’immediato dopo-Franco, hanno dovuto riciclarsi in altre attività, i due gruppi fondanti del Pd, i loro network, le loro famiglie, sono pur sempre rimasti in affari (rectius, in politica), un po’ come ha saputo fare buona parte delle nomenclature dei vecchi partiti comunisti dell’Est, per lo più riciclatisi socialdemocratici. A ormai vent’anni dalla catastrofe dei primi anni Novanta, i dirigenti del Pd gestiscono pur sempre uno dei due maggiori partiti di uno dei quattro più grandi paesi europei.

Le ragioni del successo professionale sembrano però coincidere con le ragioni dell’insuccesso politico. Questo gruppo dirigente sembra ancora, e sempre più, quello fotografato dalla celebre invettiva di Nanni Moretti a piazza Navona qualche anno fa. Non è capace di suscitare grandi aspettative neppure di fronte al crollo verticale di credibilità dell’avversario e allo sfaldamento della sua coalizione politica e sociale. Il Pd è votato, anche da gran parte degli stessi elettori dello “zoccolo duro”, faute de mieux, e preferibilmente quando presenta candidati emersi in alternativa a quelli suggeriti o inizialmente proposti dai gruppi dirigenti, i soli, pare, capaci di suscitare qualche mobilitazione.

Il Pd sembra quasi lo spezzone sopravvissuto di un passato illustre quanto controverso, che ha però perso per strada le ragioni, le culture politiche, gli interessi e le ispirazioni ideali che lo avevano prodotto. La Dc, piuttosto che altre forze altrettanto antistaliniste ma più laiche e modernizzanti, era diventata il partito di maggioranza relativa, perché nel 1946 l’Italia era essenzialmente un paese contadino e cattolico; il Pci era diventato il principale partito di opposizione perché il comunismo, e il socialismo in senso forte, erano il grande protagonista alternativo della storia del Novecento e della nascente società industriale, e comunista era stata buona parte dell’antifascismo militante. Non sarebbero state queste, verosimilmente, le due forze principali della politica italiana, se la democrazia fosse stata instaurata qualche decennio più tardi. Ma in politica il valore dell’avviamento è più determinante che nella vita economica.

Con questo non si vuole affatto negare, come afferma un populismo antiparlamentare di destra e di sinistra in minacciosa ascesa che ricorda quello degli anni Dieci del Novecento, che una democrazia possa fare a meno di una classe politica professionale, e neppure che disporre di un establishment politico robusto costituisca per una forza politica un asset fondamentale. Ma è a causa dell’impronta ricevuta dalle due obsolete componenti della sua classe politica, che non appare minimamente disposta ad accettare contaminazioni forti e tali da rimetterne in discussione significativi elementi, che il Pd sembra irrimediabilmente inadeguato alle sfide della contemporaneità di questo inizio di secolo e che non sembra in nessun modo in grado di rappresentare l’intero centrosinistra di una democrazia contemporanea, e neppure il suo naturale baricentro.

Ed è probabilmente a causa di quell’impronta che il Pd non ha saputo riconoscere in questi anni la natura dell’avversario, come hanno invece per lo più saputo fare quelle componenti della società italiana che erano maggiormente radicate nelle «esperienze messe ai margini nella seconda metà del Novecento»: le esperienze, e le culture politiche, che non potevano riconoscersi in un Pd nato dall’incontro fra i due gruppi dirigenti del Pci e della Dc. Non solo Olivetti e Ugo La Malfa – e neppure tanto De Martino, la cui politica degli “equilibri più avanzati” ridusse quasi il Psi al ruolo di pronubo dell’incontro fra comunisti e democristiani, facendolo così poi finire nelle mani dello spregiudicato avventurismo autodistruttivo di Craxi. È l’intera democrazia laica, ed è anche tutta la stessa variegata eredità di quella che veniva detta la “sinistra democratica” che non riesce a ritrovarsi a casa in un Pd che le appare inevitabilmente erede di un’antica strategia di democrazia consociativa, fondata sulla cogestione della Repubblica da parte dei rappresentanti delle «grandi masse cattoliche, socialiste e comuniste» (dove le non sterminate «masse socialiste» venivano interposte solo per attenuare l’effetto), su continue riproposizioni dell’esperienza dei governi ciellenistici, intesi non come un momento di passaggio necessario alla restaurazione della democrazia e alla ridefinizione delle sue regole, ma quasi come l’esplicitazione politica dell’identità civile più profonda dell’Italia; e da ultimo nella strategia del compromesso storico e nei governi delle “larghe intese”, visti come il più alto momento di avvicinamento alla «democrazia compiuta», o almeno all’attuazione del disegno costituzionale, e interpretati come il punto apicale dell’incontro fra la tradizione del cattolicesimo popolare, più di ogni altra quella genuinamente italiana e che il Risorgimento aveva umiliato, e i rappresentanti del nuovo proletariato industriale. Non a caso l’eroe eponimo di questo Pd è ancor oggi Aldo Moro, venerato non solo come simbolo della Repubblica lacerata dal terrorismo negli anni di piombo, ma anche come statista di ineguagliata levatura nazionale e internazionale. In quella visione il ruolo delle minoranze politiche non poteva essere quello di vitale contrappeso e controllo, e in prospettiva di alternativa democratica, ma quello di chi sceglieva di autoisolarsi dalla storia, di chi “non comprendeva” di essere chiamato a partecipare al Grande Disegno Progressivo.

A questo Pd è soprattutto mancato quel che manca ai suoi due ingredienti politici principali – e che sarebbe stato vitale per l’opposizione al populismo berlusconiano: la cultura delle regole, il rispetto per l’autodeterminazione degli individui, il rapporto positivo con la modernità e la laicità.

Cultura delle regole è ben più che l’osservanza o il culto delle regole dell’etica pubblica nella vita politica. In un paese appena normale questo dovrebbe essere scontato. E invece, a dispetto delle reiterate professioni di “diversità”, neppure in questo campo il Pd ha saputo essere all’altezza della sfida. Dal caso Penati in giù, e a prescindere dagli esiti giudiziari, sembra spesso che il venir meno delle fedi politiche abbracciate in gioventù abbia significato per molti che ora “tutto è permesso”. Mentre un partito che si proponga di far uscire il paese dagli “anni di fango” del diciottennio berlusconiano certi comportamenti se li sarebbe potuti permettere ancor meno di qualunque altro.

Ma cultura delle regole significa anche capire che il conflitto di interesse di Berlusconi non era una bazzecola, non era sovrastruttura, era l’essenza del berlusconismo e lo costituiva fin dall’inizio in veleno per la democrazia costituzionale. Era la premessa di tutte le leggi eversive e ad personam. Una diversa cultura delle regole avrebbe dovuto suggerire di alzare il ponte levatoio rispetto a ogni ipotesi di riscrivere con una maggioranza berlusconiana le regole costituzionali. E avrebbe dovuto comportare una ben diversa intransigenza nei confronti della continua eversione di ogni regola, di ogni prassi consolidata, di ogni consuetudine costituzionale e di decenza. Come è possibile essere credibili nella denuncia della degenerazione della democrazia in campagna elettorale, quando con un tale avversario ci si è proposti addirittura di riscrivere insieme le regole del patto costituzionale? Quando, in nome di una concezione sostanzialistica della democrazia, si è sempre disposti a passare sopra a enormità come la falsificazione industriale delle firme di presentazione delle liste di candidati alle elezioni? Quando non si ricorre all’ostruzionismo contro la legge-porcata, e addirittura si concorre con i berlusconidi, alla vigilia stessa delle elezioni, a campagna praticamente già iniziata, all’approvazione di una riforma della legge elettorale europea che ha la sola funzione di diserbante, che non ha la minima giustificazione in ragioni di “governabilità”, che serve solo a tentare di assicurarsi coattivamente una rendita elettorale artificiosa, annientando preventivamente con un espediente “tecnico” i competitori che non si è riusciti a convincere politicamente della bontà del progetto comune?

Purtroppo, l’idea che il diritto è solo sovrastruttura, pura e semplice registrazione di rapporti di forza, che non ha capacità di incivilimento e di imbrigliamento della natura ferina della politica e dello scontro sociale, è radicata in una componente del ceto politico del Pd, quanto nell’altra è forte l’idea della superiorità dello “spirito” sulla “legge” – qualunque sia poi lo strumento esegetico da applicare al principio e a tutte le sue possibili e sinistre conseguenze mondane. Alla fine, per entrambi, questa noncuranza per la forma della democrazia si traduce nell’idea che la democrazia è sempre meglio tutelata non se si rispettano le sue regole, ma se il partito o chi lo rappresenta, o la corrente, o la frazione, ha, in qualunque modo, voce in capitolo e mani in pasta.

Da molti anni i siti Internet che si offrono di misurare l’orientamento politico dei loro utenti devono utilizzare almeno due parametri combinati, uno fondato sulle scelte di politica economica, più o meno dirigiste e solidariste ovvero liberiste e antistataliste, e l’altro sull’atteggiamento etico-politico, più o meno tradizionalista-autoritario ovvero liberale-individualista in materia di libertà e diritti individuali. Il Pd ha ritenuto fin dall’inizio che questa seconda dimensione fosse ininfluente a segnare i confini della politica. Ha invocato l’esempio americano, l’unico esistente e invocabile al mondo, ignorando però che il fenomeno della compresenza di tradizionalisti-autoritari e liberali-individualisti in entrambi i partiti americani, in materia di diritti civili legati alla secolarizzazione, esiste solo a livello federale, e non nei singoli Stati dell’Unione, ed è mera conseguenza delle profonde differenze nella cultura politica diffusa nei diversi contesti territoriali in cui si svolge la contesa politica americana. Ha preteso, quindi, di includere nello stesso partito ampie rappresentanze di clericali estremisti, assieme a sparute pattuglie di laici libertari e a un gran corpaccione più o meno disponibile a seguire, qualunque fosse, la convenienza o la diagonale delle forze interne.

Ma, se le questioni relative ai diritti civili non sono materia su cui gli elettori possono esprimersi al momento di eleggere i propri rappresentanti, dato che si ritiene che non siano materia in base a cui qualificare i partiti concorrenti, in base a quali criteri quelle questioni dovrebbero poi essere decise da parte degli eletti? La sola risposta possibile sono compromessi verbalistici o al ribasso, sulla falsariga del voto in Costituente a favore dell’articolo 7 da parte del Pci, o del fallito tentativo di accomodamento, patrocinato sempre dal Pci, con cui i partiti divorzisti avrebbero dovuto rimangiarsi da sé la legge Fortuna in Parlamento, limitandone gli effetti ai matrimoni non concordatari, per evitare di vincere il referendum “lacerando” il paese (o, più esattamente, lacerando la strategia del compromesso storico). Inevitabile scontentare tutti, tranne il vacuo autocompiacimento intellettuale dei chierici e degli esperti chiamati a elaborare cervellotici “compromessi alti”, soprattutto in materia di bioetica, destinati a compiacere per quanto possibile le gerarchie, concedendo il minimo indispensabile all’autodeterminazione dei soggetti interessati. Inutilmente, tra l’altro: perché, in fatto di clericalismo, di leggi negatrici di diritti e di pari dignità sociale e in fatto di fiumi di risorse materiali e pecuniarie graziosamente elargite a spese dei contribuenti, l’avversario senza principi sarà sempre in grado di offrire di più alle gerarchie.

Così tutte e ciascuna le posizioni ufficiali, o mediane e prevalenti, del Pd in materia di social issues, o, come si dice da noi, di “questioni etiche controverse”, sono – e sarebbe facilissimo e incontrovertibile dimostrarlo caso per caso – non solo enormemente più conservatrici di quelle di tutte le forze del centrosinistra nell’Europa occidentale, ma anche di quelle di tutte o quasi tutte le forze delle destre mainstream e di governo (mentre le posizioni di ciò che da noi viene corrivamente definito “centrodestra” altrove si ritrovano solo in frange estremiste e lunatiche con cui la destra ufficiale evita finché possibile di intrecciare rapporti).

Ma è possibile proporsi di modernizzare le strutture e l’economia di un paese, isolandolo da tutto il resto dell’Europa occidentale in materia di diritti di autodeterminazione dell’individuo moderno? Non è possibile. Non è solo Richard Florida a capirlo, ma tutto il “popolo di sinistra” e i “ceti medi riflessivi” che sono il naturale target di riferimento del Pd.

Del resto, nella crisi, è proprio la modernità ad essere sotto accusa. È l’intera fabbrica della civiltà liberale e illuministica a essere posta sotto processo, più che mai prima d’ora negli ultimi settant’anni, con argomenti talvolta contrapposti e talvolta convergenti, da parte di reazionari ed entusiasti naïf della società multiculturale in senso forte, di integralisti e fondamentalisti di ogni confessione, di padani e neoborbonici, di razzisti ed ecopacifisti estremi, di Tea party e teorici della decrescita, di spregiatori dello “scientismo” e di nostalgici dei mulini bianchi, di entusiasti dello chador e di sospettosi delle vaccinazioni. La sinistra italiana ed europea, non meno che la destra raziocinante, può far propria anche solo parte di questa paccottiglia? La risposta, come minimo, non giunge chiara e forte.

Il Pd, come e più di altri, sembra incapace di una vera riflessione sulla politica, e si affida, come l’avversario ma senza essere capace di eguagliarlo, all’immagine; e, nei momenti di lungimiranza, pensa al più alla scadenza elettorale immediatamente successiva. Invece di aprire il partito alle componenti della società italiana portatrici di culture politiche diverse, forse più adeguate alle sfide del presente, ma forse anche portatrici di novità destabilizzanti o difficili da metabolizzare per il ceto politico di discendenza democristiana o comunista, preferisce mettere in lista il volto famoso della televisione, la blogger di successo, l’imprenditore veneto sottratto alla candidatura a destra per poi restituirlo inevitabilmente agli ambienti di provenienza a elezione avvenuta e a voti sottratti.

Tutto questo mentre l’Italia sprofonda nel fango e mentre la crisi richiederebbe non dall’Italia soltanto, ma dall’Europa intera, risposte che la politica non sembra più capace di articolare. Forse soprattutto perché le qualità richieste per vincere le elezioni hanno ormai poco o nulla a che fare con le qualità necessarie a governare.

Dovrebbe essere evidente che, se in Italia sarà innanzitutto necessario riparare i danni del diciottennio di fango, economici e forse ancor più immateriali, a livello globale si dovrebbe rispondere alla crisi ripensando i paradigmi affermatisi nell’ultimo trentennio.

Se la democrazia occidentale ha smesso di funzionare come poderosa benché lenta macchina di inclusione e di emancipazione (credito facile e crescita indotta dalla rivoluzione tecnologica hanno soltanto posticipato fino allo scoppiare della crisi il redde rationem che si preparava da trent’anni), se la crisi è innanzitutto crisi della domanda, principalmente causata dall’aumento delle diseguaglianze e dall’impoverimento relativo di larghe fasce di popolazione, sarebbe necessario ripensare i paradigmi che hanno presieduto alla ricostruzione del sistema politico ed economico internazionale dopo il crollo del comunismo. E farlo senza però cedere alla facile tentazione populista di illudere e illudersi che sia possibile tornare a comportarsi come se vivessimo ancora nella società industriale di trenta o quarant’anni fa, con le sue certezze, con le sue tecnologie, con i suoi metodi di produzione, con la sua composizione demografica, con la libertà dell’intervento pubblico assicurata dalla mancanza di libertà di circolazione di merci e persone; e come se potessimo ritornare agli stessi sistemi di protezione sociale e di welfare, e agli stessi strumenti per il loro finanziamento, che quelle tecnologie, quel sistema produttivo, quella demografia e quel controllo sulla libertà di circolazione fra gli Stati erano in grado di garantire; o come se fosse desiderabile rinunciare, insieme agli svantaggi, anche alle opportunità potenzialmente offerte da un’organizzazione sociale meno gerarchica e meno uniformemente pianificata di un tempo. La via verso una riduzione delle diseguaglianze capace di rilanciare la domanda deve oggi necessariamente essere diversa, e inevitabilmente più complicata, delle ricette di allora; e la redistribuzione del costo e dei vantaggi del welfare fra le generazioni, e fra uomini e donne, non può non comportare anche svantaggi, e spesso svantaggi non irrilevanti, anche a carico di chi oggi è solo relativamente più garantito rispetto agli altri.

Più in generale, tanto la sinistra di matrice variamente socialista quanto il liberalismo progressista, o quel che proviene da questi due filoni del progressismo occidentale, non possono non proporsi di «correggere» in varia misura le dinamiche spontanee del capitalismo (che del resto, senza quelle correzioni, ha sempre dimostrato un grande talento spontaneo anche per l’autodistruzione); non credo invece che potrebbe realisticamente aspirare a un ruolo maggioritario e di governo delle nostre società una sinistra che si ripromettesse di escogitare nuove vere e proprie «alternative» desiderabili all’economia capitalistica in quanto tale (ruolo cui, peraltro, il Pd sembra in ogni caso il candidato meno adatto). A chi non coltivi un’idea davvero fortemente utopistica della democrazia è molto difficile pensare che alternative del genere non conducano ad assetti sociali fortemente autoritari, in quanto inevitabilmente privi di quei forti caratteri di poliarchia diffusa che sono necessari alla sopravvivenza di una società aperta: caratteri che fin qui non sono mai stati presenti in nessuna società in cui anche la vita economica non sia stata fondamentalmente libera.

(Per non dire che, nel degradato contesto civile italiano, gravato già prima della catastrofe etica di questi anni da pesanti e peculiari deficienze profondamente radicate nell’“autobiografia della nazione”, qualunque riflessione generale o di principio sul ruolo dell’intervento pubblico in economia deve poi fare i conti all’atto pratico con il peso della corruzione endemica, del clientelismo e del familismo amorale e con l’influenza della criminalità organizzata, che rendono ancor più decisiva la necessità di una forte struttura poliarchica della società, non solo al fine di garantire le libertà pubbliche dagli abusi sempre probabili della politica, ma anche di non avvantaggiare ulteriormente ladrocinio e razzie su scala industriale).

In ogni caso dovrebbe essere evidente a tutti che nessuno dei vecchi Stati-nazione europei presi singolarmente ha la stazza indispensabile neppure per proporre seriamente al resto del mondo un mutamento significativo dei paradigmi instauratisi nei decenni del Washington consensus e pretendere di essere ascoltato e preso davvero sul serio. I vecchi Stati-nazione europei hanno tutti, nel mondo globale, una possibilità di far valere i propri interessi e le proprie proposte paragonabile a quella che aveva il Belgio nell’Europa-mondo della prima metà del ventesimo secolo a fronte di un vicino prepotente.

Proposte che sarebbero indispensabili, perché in un mondo interdipendente credere di poter cambiare unilateralmente e profondamente le regole acquisite, per quanto queste possano essere ritenute sbagliate e dannose, adottando politiche controcorrente rispetto a quelle dei propri partner politici e commerciali sarebbe come pretendere di giocare a bridge con le regole del poker senza finir male. E d’altronde non bisognerebbe neppure mai mancare di opporre ai critici della globalizzazione che è proprio all’interdipendenza economica globale che dobbiamo la fine del rischio di una  guerra nucleare globale che ci ha accompagnato come una concreta e reale possibilità per quarant’anni nel secolo scorso e che più di una volta abbiamo sfiorato molto da vicino, in qualche caso senza neppure accorgercene: è sorprendente quanto poco si rifletta sul fatto che è grazie all’interdipendenza economica globale che probabilmente l’umanità può oggi ritenere superato il più alto rischio di autoannientamento sperimentato nell’intera sua storia, e anche in presenza di dislocazioni enormi di potere, di ricchezza e di influenza verso parti del mondo che ne erano escluse fino a ieri.

E però, se la catastrofe civile dell’Italia ha costituito in questi anni un caso estremo di decadimento non solo economico, l’Europa è comunque la parte del mondo che nello stesso periodo ha collettivamente subito la più rilevante retrocessione almeno relativa, che ha subito la maggiore perdita di influenza globale, e che sta soffrendo il più rilevante contraccolpo sulle aspettative e sul sistema di vita dei propri cittadini. Ed è quindi la parte del mondo che avrebbe più interesse alla ridefinizione dei paradigmi dell’economia globale. Se i singoli Stati-nazione europei sono ormai irrilevanti, un’Unione Europea capace di autonoma soggettività e iniziativa politica non lo sarebbe affatto, e avrebbe ampiamente le dimensioni necessarie per pretendere di far valere ancora, o di nuovo, il proprio punto di vista fra le grandi potenze del ventunesimo secolo.

Tutte le considerazioni di Ristuccia sul ripensamento della politica democratica andrebbero forse rivolte non solo e non tanto al Pd, quanto alle “famiglie” politiche europee, come vengono spesso bonariamente definiti i “partiti” politici europei e le loro organizzazioni collaterali.

I “partiti” europei – anche quelli che hanno da poco introdotto la possibilità dell’iscrizione individuale – sono però, a tutt’oggi, poco più che cordate di partiti statali che a livello statale elaborano le loro strategie politiche, economiche, sociali, comunicative, e ricevono la loro legittimazione. A livello europeo, finora, le cordate si sono formate avendo di mira soprattutto la spartizione delle risorse disponibili, e solo in seguito hanno tentato di raggiungere di volta in volta, in genere sempre facendo uso dell’innocuo strumento del consensus, una qualche omogeneità politica sulle questioni al momento in discussione – e quasi mai sulle prospettive di medio periodo.

È stato imbarcando il partito italiano di Berlusconi – e partiti nazionalpopulisti dell’Est decisamente altrettanto poco raccomandabili – che anni fa il Partito Popolare Europeo si è assicurato con relativa tranquillità lo stabile ruolo di partito di maggioranza relativa nel Parlamento Europeo – con tutte le conseguenze relative, che certamente non olent. I socialisti del Pse non hanno avuto molti problemi ad avallare il riciclo in veste di socialdemocratici dei rampolli delle nomenklature comuniste dei nuovi Stati membri. Appena un po’ più schizzinosi, i liberali hanno pensato di aggregare nel solo gruppo parlamentare le forze politiche ritenute non abbastanza omogenee per essere cooptate anche nel partito Eldr o che non intendevano esse stesse legarsi troppo strettamente (inaugurando così il modello ora seguito dal gruppo socialista per accogliere nelle sole file del gruppo parlamentare il Pd, che non può aderire anche al partito per il dissenso degli ex democristiani); non senza qualche clamoroso infortunio in cui pure i liberali sono incorsi nel passato, avendo inizialmente accolto nel loro gruppo, su pressante insistenza di Giorgio La Malfa, la Lega Nord (uscitane poco dopo alla vigilia dell’espulsione – e seguita anni dopo da quel che restava del Pri) e il partito ungherese di Viktor Orban, poi transitato nel Ppe, che sembrava destinato dopo l’89 a restaurare la democrazia liberale in quel paese anziché ad affossarla nuovamente.

È però molto difficile attendersi che i partiti europei prendano davvero forma e divengano il luogo dell’elaborazione politica che i partiti statali non possono più essere, se e finché in sede europea non si eleggerà un governo europeo direttamente legittimato dal Parlamento Europeo – con il Consiglio in veste, magari, di Senato o di Bundesrat anziché di organo politico intergovernativo dirigente, legiferante e protagonista esclusivo o quasi di tutte le scelte politiche di maggior rilievo, al termine di negoziati che devono concludersi con l’accordo unanime di 27 delegazioni statali. La situazione cambierà quando almeno gli attori principali si renderanno conto che l’alternativa è solo la catastrofe comune – sperando che la resipiscenza non intervenga, come è purtroppo possibile, fuori tempo massimo. Fino ad allora sarà ben difficile che i partiti europei assumano un ruolo guida nell’elaborazione e nella determinazione delle scelte di fondo. Ma solo allora i partiti europei saranno obbligati a ricercare un’unità non solo, come oggi, di facciata e di cassa, o nella migliore delle ipotesi limitata all’orientamento ideologico o ai principi ispiratori, ma anche politica e operativa.

Anche le fondazioni politiche europee, che da qualche anno sono state costituite per riunire, coordinare e far collaborare fra loro le fondazioni e i think tanks delle diverse “famiglie” politiche, e che il Parlamento Europeo ha deciso di sostenere e finanziare per contribuire all’elaborazione di politiche realmente europee, sono finora, come i rispettivi “partiti”, organizzazioni che riuniscono essenzialmente i think tanks, le fondazioni e i centri studi che fanno capo ai rispettivi partiti statali, con gradi di autonomia o di dipendenza molto variabili da caso a caso, ma che certamente non riescono a fungere da centri di elaborazione delle nuove scelte di fondo di cui ci sarebbe bisogno.

È vero che già oggi gran parte delle scelte politiche fondamentali viene assunta a livello europeo, ma i governi statali si guardano bene dal rischio di sostituire i loro poteri di codecisione con un meccanismo di legittimazione democratica. Dal loro punto di vista, è più conveniente sottoporre ex post ai Parlamenti statali i compromessi faticosamente raggiunti in seno al Consiglio dai governi e farglieli trangugiare così come sono, inemendabili, adombrando irreparabili catastrofi geopolitiche in caso di rigetto. Avviene in pratica l’opposto di quel che predica la demagogia antieuropea: il mancato trasferimento alla sovranità europea delle decisioni che richiedono decisioni europee si traduce non in un maggior controllo democratico su tali decisioni, ma nella sostanziale abolizione di ogni meccanismo di formazione democratica delle scelte politiche, salvo quello della ratifica estorta con minacce di sfracelli ai Parlamenti statali e talvolta al Parlamento Europeo. Da questo punto di vista, le polemiche degli euroscettici sul “deficit democratico” delle procedure europee sono senz’altro ben fondate, ma il deficit dipende dal mancato o insufficiente conferimento di sovranità alle istituzioni comuni, non dallo spossessamento di sovranità statali ormai svuotate e patetiche.

Resta che, finché questo nodo non sarà sciolto, finché cioè non si troverà una classe politica europea capace di trattare gli elettori da adulti e non da bambini undicenni (come espressamente raccomandato da Berlusconi ai suoi candidati, perché così stabiliscono le regole della pubblicità commerciale), sarà difficile che gli attuali partiti europei e i loro centri studi e fondazioni assumano, come sarebbe necessario, il ruolo di effettivi luoghi di elaborazione di nuove strategie politiche dell’Europa, capaci anche di tradursi in proposte di riforma o di rimessa in discussione dei paradigmi consolidatisi nell’economia globale. Non è un caso che la carriera europea sia per lo più ancora considerata dalla maggior parte dei politici del continente come una seconda scelta, in mancanza di migliori opportunità da percorrere a livello statale, e che i risultati delle elezioni europee, non potendo per ora determinare l’orientamento di un “governo” europeo, siano interpretati soprattutto come giganteschi sondaggi nazionali, o come registrazione dei rapporti di forza interni, in previsione delle scadenze che davvero contano agli occhi delle classi politiche statali.

Si torna così, mi pare, al centro del dibattito riaperto da Ristuccia: con quali strumenti ritrovare un luogo per l’elaborazione delle scelte politiche e per recuperare la “vista lunga” che l’Occidente sembra avere ovunque smarrito.

È proprio a partire dall’impasse in cui si dibatte qualunque tentativo di trovare una soluzione statale a problemi che, avendo scala globale, possono essere affrontati solo a partire almeno dalla dimensione europea, che, a voler essere molto ottimisti e a voler proprio sperare contra spem, anche il Pd potrebbe ritrovare un ruolo significativo. Se si paralizzano reciprocamente su molte altre questioni, le diverse componenti che convivono nel Pd dovrebbero poter trovare proprio nel rilancio del progetto europeo il terreno su cui riaffermare la propria più decisa caratterizzazione comune. A patto di non lasciarsi mettere nell’angolo dalla demagogia che ha certamente fatto breccia anche nel proprio elettorato, e a patto di saper affrontare senza corrività la sfida della ciarlataneria populista antieuropea, il Pd potrebbe forse riprendere, nel dialogo fra partiti e “famiglie” di partiti europei, e assieme agli altri soggetti orientati nella stessa direzione, quell’iniziativa federalista che, fino all’avvento dell’infausto diciottennio berlusconiano, aveva sempre contraddistinto la politica estera italiana, finendo per accomunare tutte le forze politiche maggiori. Su questo terreno, forse, potrebbe perfino trovare il modo di farsi finalmente contaminare dalle culture politiche di cui ha creduto fin qui di poter fare a meno, o che ha vanamente creduto di poter rappresentare da solo con il suo personale di ascendenza democristiana o comunista. Non di rado gli italiani hanno cercato di risolvere i propri stessi problemi interni attraverso l’Europa, facendosi forti della scusa dei virtuosi “vincoli esterni” che sarebbero stati imposti dall’Europa, quasi che quei criteri non fossero sempre stati il risultato di decisioni unanimi che avevano sempre visto coinvolti anche i governi italiani. Forse un meccanismo del genere potrebbe essere oggi il mezzo per uscire, rilanciando la posta, dall’incapacità evidente di assolvere l’ambizioso ruolo che il Pd si era assegnato di protagonista unico dell’alternativa democratica interna alla rovina e alla corruzione populista degli anni di fango del berlusconismo. Contribuire a costruire lo strumento europeo indispensabile per poter concepire politiche nuove è un compito che, per quanto poderoso, è forse meno impossibile che pretendere di farsi interamente carico da solo della ricostruzione civile dell’Italia, senza vedersene riconosciuta dal paese la capacità. Meno impossibile, forse, il compito di concorrere a rilanciare lo strumento europeo, perché la costruzione della federazione europea è per l’Europa la sola risposta, alternativa al suicidio politico collettivo, alla sfida posta dalla storia e resa più incalzante dalla crisi: una risposta di cui già molti fra i più avvertiti colgono la necessità inderogabile, ma che attende ancora di essere fatta propria da parti davvero consistenti dell’establishment politico europeo. E il Pd potrebbe avere il peso e anche la collocazione politica necessari per concorrere in modo determinante, assieme ad altri, a dare corpo e a interpretare questa risposta.

Quanto però ai modelli, alla capacità di combinare l’apporto delle scienze sociali con la maturazione di un intero gruppo dirigente, questo non è solo o essenzialmente un problema del Pd, o delle famiglie politiche europee. C’è un deficit generalizzato e crescente di educazione alla cittadinanza, una perdita della memoria storica comune dell’Occidente e dell’Europa, che nel nostro continente non è neppure controbilanciata, come negli Strati Uniti, dal patriottismo costituzionale e dalla consapevolezza diffusa dei valori etico-politici che ne caratterizzano l’esperienza democratica – per quanto anche lì questi possano poi essere semplificati, mitizzati, volgarizzati e spesso manipolati.

È anche il venir meno di questa educazione alla cittadinanza che inaridisce l’humus necessario alla vita della democrazia rappresentativa e che produce ovunque populismi, e a catena i conseguenti imbarbarimenti e mostruosità. Ed è il trionfo della “barbarie dello specialismo” proposta nei percorsi di formazione che spesso rende indifesi di fronte alla ciarlataneria politica anche i giovani migliori e più brillanti, spesso anche vanificando le potenzialità democratiche della rete. È la personalizzazione estrema della politica che comporta inevitabilmente la sua riduzione a infotainment, quando non a macchina del fango, a industria del dossieraggio e del ricatto, allontanandone le energie migliori e rischiando di convertire in un nuovo incubo l’auspicato “ricambio generazionale”, che alla fine rischierà di rivelarsi, quando finalmente arriverà, come quello del 1994 in Italia, solo anagrafico e generazionale e non anche politico e civile.

La crisi della democrazia europea è così profonda che difficilmente potrà essere affrontata solo approntando migliori strumenti di partecipazione politica – che pure è certamente indispensabile ripensare e che non possono essere semplicemente quelli della vecchia forma partito, tanto meno nella versione sperimentata in Italia ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica, per quanto infinitamente peggiore sia quel che poi l’ha sostituita.

Sono le classi dirigenti, non solo, e forse neppure soprattutto, le classi politiche, che non sembrano avere ancora davvero preso le misure dell’entità della crisi che attraversa ovunque la democrazia occidentale. Neppure nell’ambito dell’alta cultura. Nell’attuale situazione, una tale presa di coscienza è forse la premessa più urgente, necessaria e determinante di ogni rinnovamento. Come notava qualche anno fa Tommaso Padoa-Schioppa, «in una democrazia non vi sono solo compiti e diritti del popolo; vi sono anche compiti e doveri delle élites, senza il cui corretto esercizio la democrazia stessa non produce buongoverno e forse neppure sopravvive».

Da Queste Istituzioni, n. 162, luglio-settembre 2011 (uscita effettiva estate 2012).

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