Ancora
sul Pd e dintorni. Il
Partito democratico può cambiare?
Quello
che segue è l’intervento di
Giulio Ercolessi nel dibattito a più voci sulle prospettive
del Pd, aperto sulle pagine della rivista “Queste
Istituzioni” dal
direttore Sergio Ristuccia e già oggetto di un precedente dibattito svoltosi nella sede
della rivista nel 2009, cui era poi seguito un ulteriore intervento del direttore nel
numero gennaio-giugno 2011.
Questo testo è stato
scritto nell’ottobre 2011 (prima quindi della costituzione
del governo
Monti) e pubblicato, con il titolo “Prendere le misure della
crisi in Europa”, nel n. 162 della rivista, datato
luglio-settembre
2011, ma uscito nella primavera-estate dell’anno successivo.
È
possibile riformare in
corso d’opera, e profondamente, un partito, e soprattutto un
grande partito?
È
questo l’interrogativo
che suscita l’editoriale di Sergio Ristuccia, pubblicato nel
numero 160-161 di
“Queste Istituzioni”. Forse il pessimismo e
l’ottimismo hanno a che fare più
con la biochimica del cervello che con le analisi, le interpretazioni e
le
culture politiche, ma a chi scrive l’ipotesi di ristrutturare
il Pd cammin
facendo sembra impresa alquanto improba, e fa venire in mente i
tentativi
dell’ultima ora di mantenere in vita il nesso statuale
austro-ungarico alla
fine della Grande Guerra, cambiandone in corsa la ragion
d’essere, da ultimo
impero plurinazionale di fondazione premoderna a nucleo di
un’unione federale
democratica europea: c’è ancor oggi qualcuno che
pensa che si sia trattato di
una grande occasione mancata, e che enfatizza la presunta tolleranza di
quell’impero – come pure di quello ottomano, e
anche di quello romano – come il
suo nucleo valoriale ed etico-politico identitario preminente, e ne
immagina e
descrive dilapidate virtualità progressive o postmoderne
(già all’epoca
vanamente ipotizzate).
È
anche vero che la
storia ha sempre più fantasia di chi pensa di poterla
prevedere, nel bene come
nel male, e che quindi non bisogna mai dare nulla per definitivamente
scontato,
ma, a quattro anni dalla fondazione del Pd, il suo imprinting
sembra davvero difficile da rideterminare.
Per
certi versi il Pd è
stato in realtà un successo sorprendente, magari non un
successo politico, ma un
successo se valutato con i criteri della sociologia dei gruppi
dirigenti: i
vecchi gruppi dirigenti delle sue due componenti fondative –
il Pci/Pds/Ds e la
sinistra Dc – hanno saputo sopravvivere brillantemente alla
catastrofe che ha
travolto i loro partiti. Se i dirigenti e le burocrazie degli altri due
partiti
“eurocomunisti”, francese e spagnolo, o gran parte
di quelli del Mrp francese,
o dell’abortito tentativo di dar vita a una Dc spagnola di
modello italiano nell’immediato
dopo-Franco, hanno dovuto riciclarsi in altre attività, i
due gruppi fondanti
del Pd, i loro network, le loro famiglie, sono pur sempre rimasti in
affari (rectius, in politica), un
po’ come ha
saputo fare buona parte delle nomenclature dei vecchi partiti comunisti
dell’Est, per lo più riciclatisi
socialdemocratici. A ormai vent’anni dalla
catastrofe dei primi anni Novanta, i dirigenti del Pd gestiscono pur
sempre uno
dei due maggiori partiti di uno dei quattro più grandi paesi
europei.
Le
ragioni del successo
professionale sembrano però coincidere con le ragioni
dell’insuccesso politico.
Questo gruppo dirigente sembra ancora, e sempre più, quello
fotografato dalla
celebre invettiva di Nanni Moretti a piazza Navona qualche anno fa. Non
è
capace di suscitare grandi aspettative neppure di fronte al crollo
verticale di
credibilità dell’avversario e allo sfaldamento
della sua coalizione politica e
sociale. Il Pd è votato, anche da gran parte degli stessi
elettori dello
“zoccolo duro”, faute de mieux,
e preferibilmente
quando presenta candidati emersi in alternativa a quelli suggeriti o
inizialmente proposti dai gruppi dirigenti, i soli, pare, capaci di
suscitare
qualche mobilitazione.
Il
Pd sembra quasi lo
spezzone sopravvissuto di un passato illustre quanto controverso, che
ha però
perso per strada le ragioni, le culture politiche, gli interessi e le
ispirazioni ideali che lo avevano prodotto. La Dc, piuttosto che altre
forze
altrettanto antistaliniste ma più laiche e modernizzanti,
era diventata il
partito di maggioranza relativa, perché nel 1946
l’Italia era essenzialmente un
paese contadino e cattolico; il Pci era diventato il principale partito
di
opposizione perché il comunismo, e il socialismo in senso
forte, erano il
grande protagonista alternativo della storia del Novecento e della
nascente
società industriale, e comunista era stata buona parte
dell’antifascismo
militante. Non sarebbero state queste, verosimilmente, le due forze
principali
della politica italiana, se la democrazia fosse stata instaurata
qualche
decennio più tardi. Ma in politica il valore
dell’avviamento è più determinante
che nella vita economica.
Con
questo non si vuole
affatto negare, come afferma un populismo antiparlamentare di destra e
di
sinistra in minacciosa ascesa che ricorda quello degli anni Dieci del
Novecento, che una democrazia possa fare a meno di una classe politica
professionale, e neppure che disporre di un establishment politico
robusto costituisca
per una forza politica un asset
fondamentale. Ma è a
causa dell’impronta ricevuta dalle due obsolete componenti
della sua classe
politica, che non appare minimamente disposta ad accettare
contaminazioni forti
e tali da rimetterne in discussione significativi elementi, che il Pd
sembra
irrimediabilmente inadeguato alle sfide della
contemporaneità di questo inizio
di secolo e che non sembra in nessun modo in grado di rappresentare
l’intero
centrosinistra di una democrazia contemporanea, e neppure il suo
naturale
baricentro.
Ed
è probabilmente a
causa di quell’impronta che il Pd non ha saputo riconoscere
in questi anni la natura
dell’avversario, come hanno invece per lo più
saputo fare quelle componenti
della società italiana che erano maggiormente radicate nelle
«esperienze messe
ai margini nella seconda metà del Novecento»: le
esperienze, e le culture
politiche, che non potevano riconoscersi in un Pd nato
dall’incontro fra i due
gruppi dirigenti del Pci e della Dc. Non solo Olivetti e Ugo La Malfa
– e neppure
tanto De Martino, la cui politica degli “equilibri
più avanzati” ridusse quasi il
Psi al ruolo di pronubo dell’incontro fra comunisti e
democristiani, facendolo
così poi finire nelle mani dello spregiudicato avventurismo
autodistruttivo di
Craxi. È l’intera democrazia laica, ed
è anche tutta la stessa variegata
eredità di quella che veniva detta la “sinistra
democratica” che non riesce a ritrovarsi
a casa in un Pd che le appare inevitabilmente erede di
un’antica strategia di
democrazia consociativa, fondata sulla cogestione della Repubblica da
parte dei
rappresentanti delle «grandi masse cattoliche, socialiste e
comuniste» (dove le
non sterminate «masse socialiste» venivano
interposte solo per attenuare
l’effetto), su continue riproposizioni
dell’esperienza dei governi
ciellenistici, intesi non come un momento di passaggio necessario alla
restaurazione della democrazia e alla ridefinizione delle sue regole,
ma quasi
come l’esplicitazione politica
dell’identità civile più profonda
dell’Italia; e
da ultimo nella strategia del compromesso storico e nei governi delle
“larghe
intese”, visti come il più alto momento di
avvicinamento alla «democrazia
compiuta», o almeno all’attuazione del disegno
costituzionale, e interpretati
come il punto apicale dell’incontro fra la tradizione del
cattolicesimo
popolare, più di ogni altra quella genuinamente italiana e
che il Risorgimento
aveva umiliato, e i rappresentanti del nuovo proletariato industriale.
Non a
caso l’eroe eponimo di questo Pd è ancor oggi Aldo
Moro, venerato non solo come
simbolo della Repubblica lacerata dal terrorismo negli anni di piombo,
ma anche
come statista di ineguagliata levatura nazionale e internazionale. In
quella
visione il ruolo delle minoranze politiche non poteva essere quello di
vitale
contrappeso e controllo, e in prospettiva di alternativa democratica,
ma quello
di chi sceglieva di autoisolarsi dalla storia, di chi “non
comprendeva” di
essere chiamato a partecipare al Grande Disegno Progressivo.
A
questo Pd è
soprattutto mancato quel che manca ai suoi due ingredienti politici
principali
– e che sarebbe stato vitale per l’opposizione al
populismo berlusconiano: la
cultura delle regole, il rispetto per l’autodeterminazione
degli individui, il
rapporto positivo con la modernità e la laicità.
Cultura
delle regole è
ben più che l’osservanza o il culto delle regole
dell’etica pubblica nella vita
politica. In un paese appena normale questo dovrebbe essere scontato. E
invece,
a dispetto delle reiterate professioni di
“diversità”, neppure in questo campo
il Pd ha saputo essere all’altezza della sfida. Dal caso
Penati in giù, e a
prescindere dagli esiti giudiziari, sembra spesso che il venir meno
delle fedi
politiche abbracciate in gioventù abbia significato per
molti che ora “tutto è
permesso”. Mentre un partito che si proponga di far uscire il
paese dagli “anni
di fango” del diciottennio berlusconiano certi comportamenti
se li sarebbe
potuti permettere ancor meno di qualunque altro.
Ma
cultura delle regole
significa anche capire che il conflitto di interesse di Berlusconi non
era una
bazzecola, non era sovrastruttura, era l’essenza del
berlusconismo e lo
costituiva fin dall’inizio in veleno per la democrazia
costituzionale. Era la
premessa di tutte le leggi eversive e ad
personam. Una diversa cultura delle regole avrebbe dovuto
suggerire di
alzare il ponte levatoio rispetto a ogni ipotesi di riscrivere con una
maggioranza berlusconiana le regole costituzionali. E avrebbe dovuto
comportare
una ben diversa intransigenza nei confronti della continua eversione di
ogni
regola, di ogni prassi consolidata, di ogni consuetudine costituzionale
e di
decenza. Come è possibile essere credibili nella denuncia
della degenerazione
della democrazia in campagna elettorale, quando con un tale avversario
ci si è
proposti addirittura di riscrivere insieme le regole del patto
costituzionale?
Quando, in nome di una concezione sostanzialistica della democrazia, si
è
sempre disposti a passare sopra a enormità come la
falsificazione industriale
delle firme di presentazione delle liste di candidati alle elezioni?
Quando non
si ricorre all’ostruzionismo contro la legge-porcata, e
addirittura si concorre
con i berlusconidi, alla vigilia stessa delle elezioni, a campagna
praticamente
già iniziata, all’approvazione di una riforma
della legge elettorale europea
che ha la sola funzione di diserbante, che non ha la minima
giustificazione in ragioni
di “governabilità”, che serve solo a
tentare di assicurarsi coattivamente una
rendita elettorale artificiosa, annientando preventivamente con un
espediente
“tecnico” i competitori che non si è
riusciti a convincere politicamente della
bontà del progetto comune?
Purtroppo,
l’idea che
il diritto è solo sovrastruttura, pura e semplice
registrazione di rapporti di
forza, che non ha capacità di incivilimento e di
imbrigliamento della natura
ferina della politica e dello scontro sociale, è radicata in
una componente del
ceto politico del Pd, quanto nell’altra è forte
l’idea della superiorità dello
“spirito” sulla “legge”
– qualunque sia poi lo strumento esegetico da applicare
al principio e a tutte le sue possibili e sinistre conseguenze mondane.
Alla
fine, per entrambi, questa noncuranza per la forma della democrazia si
traduce
nell’idea che la democrazia è sempre meglio
tutelata non se si rispettano le sue
regole, ma se il partito o chi lo rappresenta, o la corrente, o la
frazione, ha,
in qualunque modo, voce in capitolo e mani in pasta.
Da
molti anni i siti
Internet che si offrono di misurare l’orientamento politico
dei loro utenti
devono utilizzare almeno due parametri combinati, uno fondato sulle
scelte di
politica economica, più o meno dirigiste e solidariste
ovvero liberiste e antistataliste,
e l’altro sull’atteggiamento etico-politico,
più o meno
tradizionalista-autoritario ovvero liberale-individualista in materia
di
libertà e diritti individuali. Il Pd ha ritenuto fin
dall’inizio che questa
seconda dimensione fosse ininfluente a segnare i confini della
politica. Ha
invocato l’esempio americano, l’unico esistente e
invocabile al mondo, ignorando
però che il fenomeno della compresenza di
tradizionalisti-autoritari e
liberali-individualisti in entrambi i partiti americani, in materia di
diritti
civili legati alla secolarizzazione, esiste solo a livello federale, e
non nei
singoli Stati dell’Unione, ed è mera conseguenza
delle profonde differenze
nella cultura politica diffusa nei diversi contesti territoriali in cui
si
svolge la contesa politica americana. Ha preteso, quindi, di includere
nello
stesso partito ampie rappresentanze di clericali estremisti, assieme a
sparute
pattuglie di laici libertari e a un gran corpaccione più o
meno disponibile a
seguire, qualunque fosse, la convenienza o la diagonale delle forze
interne.
Ma,
se le questioni
relative ai diritti civili non sono materia su cui gli elettori possono
esprimersi al momento di eleggere i propri rappresentanti, dato che si
ritiene
che non siano materia in base a cui qualificare i partiti concorrenti,
in base
a quali criteri quelle questioni dovrebbero poi essere decise da parte
degli
eletti? La sola risposta possibile sono compromessi verbalistici o al
ribasso,
sulla falsariga del voto in Costituente a favore
dell’articolo 7 da parte del
Pci, o del fallito tentativo di accomodamento, patrocinato sempre dal
Pci, con
cui i partiti divorzisti avrebbero dovuto rimangiarsi da sé
la legge Fortuna in
Parlamento, limitandone gli effetti ai matrimoni non concordatari, per
evitare
di vincere il referendum “lacerando” il paese (o,
più esattamente, lacerando la
strategia del compromesso storico). Inevitabile scontentare tutti,
tranne il
vacuo autocompiacimento intellettuale dei chierici e degli esperti
chiamati a
elaborare cervellotici “compromessi alti”,
soprattutto in materia di bioetica,
destinati a compiacere per quanto possibile le gerarchie, concedendo il
minimo indispensabile
all’autodeterminazione dei soggetti interessati. Inutilmente,
tra l’altro:
perché, in fatto di clericalismo, di leggi negatrici di
diritti e di pari
dignità sociale e in fatto di fiumi di risorse materiali e
pecuniarie graziosamente
elargite a spese dei contribuenti, l’avversario senza
principi sarà sempre in
grado di offrire di più alle gerarchie.
Così
tutte e ciascuna
le posizioni ufficiali, o mediane e prevalenti, del Pd in materia di social
issues,
o, come si dice da noi, di “questioni etiche
controverse”, sono – e sarebbe facilissimo e
incontrovertibile dimostrarlo caso
per caso – non solo enormemente più conservatrici
di quelle di tutte le forze
del centrosinistra nell’Europa occidentale, ma anche di
quelle di tutte o quasi
tutte le forze delle destre mainstream
e di governo (mentre le
posizioni di ciò che da noi viene corrivamente definito
“centrodestra” altrove si
ritrovano solo in frange estremiste e lunatiche con cui la destra
ufficiale
evita finché possibile di intrecciare rapporti).
Ma
è possibile proporsi
di modernizzare le strutture e l’economia di un paese,
isolandolo da tutto il
resto dell’Europa occidentale in materia di diritti di
autodeterminazione
dell’individuo moderno? Non è possibile. Non
è solo Richard Florida a capirlo,
ma tutto il “popolo di sinistra” e i
“ceti medi riflessivi” che sono il
naturale target di riferimento del Pd.
Del
resto, nella crisi,
è proprio la modernità ad essere sotto accusa.
È l’intera fabbrica della
civiltà liberale e illuministica a essere posta sotto
processo, più che mai
prima d’ora negli ultimi settant’anni, con
argomenti talvolta contrapposti e
talvolta convergenti, da parte di reazionari ed entusiasti
naïf della società
multiculturale in senso forte, di integralisti e fondamentalisti di
ogni
confessione, di padani e neoborbonici, di razzisti ed ecopacifisti
estremi, di Tea
party
e teorici della decrescita, di spregiatori dello
“scientismo” e di nostalgici dei mulini bianchi, di
entusiasti dello chador e di
sospettosi delle vaccinazioni. La sinistra italiana ed europea, non
meno che la
destra raziocinante, può far propria anche solo parte di
questa paccottiglia?
La risposta, come minimo, non giunge chiara e forte.
Il
Pd, come e più di
altri, sembra incapace di una vera riflessione sulla politica, e si
affida,
come l’avversario ma senza essere capace di eguagliarlo,
all’immagine; e, nei
momenti di lungimiranza, pensa al più alla scadenza
elettorale immediatamente
successiva. Invece di aprire il partito alle componenti della
società italiana
portatrici di culture politiche diverse, forse più adeguate
alle sfide del
presente, ma forse anche portatrici di novità
destabilizzanti o difficili da
metabolizzare per il ceto politico di discendenza democristiana o
comunista, preferisce
mettere in lista il volto famoso della televisione, la blogger di
successo,
l’imprenditore veneto sottratto alla candidatura a destra per
poi restituirlo
inevitabilmente agli ambienti di provenienza a elezione avvenuta e a
voti
sottratti.
Tutto
questo mentre
l’Italia sprofonda nel fango e mentre la crisi richiederebbe
non dall’Italia
soltanto, ma dall’Europa intera, risposte che la politica non
sembra più capace
di articolare. Forse soprattutto perché le
qualità richieste per vincere le
elezioni hanno ormai poco o nulla a che fare con le qualità
necessarie a
governare.
Dovrebbe
essere
evidente che, se in Italia sarà innanzitutto necessario
riparare i danni del
diciottennio di fango, economici e forse ancor più
immateriali, a livello
globale si dovrebbe rispondere alla crisi ripensando i paradigmi
affermatisi
nell’ultimo trentennio.
Se
la democrazia
occidentale ha smesso di funzionare come poderosa benché
lenta macchina di
inclusione e di emancipazione (credito facile e crescita indotta dalla
rivoluzione
tecnologica hanno soltanto posticipato fino allo scoppiare della crisi
il redde rationem che si preparava
da
trent’anni), se la crisi è innanzitutto crisi
della domanda, principalmente
causata dall’aumento delle diseguaglianze e
dall’impoverimento relativo di
larghe fasce di popolazione, sarebbe necessario ripensare i paradigmi
che hanno
presieduto alla ricostruzione del sistema politico ed economico
internazionale
dopo il crollo del comunismo. E farlo senza però cedere alla
facile tentazione populista
di illudere e illudersi che sia possibile tornare a comportarsi come se
vivessimo ancora nella società industriale di trenta o
quarant’anni fa, con le
sue certezze, con le sue tecnologie, con i suoi metodi di produzione,
con la
sua composizione demografica, con la libertà
dell’intervento pubblico
assicurata dalla mancanza di libertà di circolazione di
merci e persone; e come
se potessimo ritornare agli stessi sistemi di protezione sociale e di
welfare, e
agli stessi strumenti per il loro finanziamento, che quelle tecnologie,
quel
sistema produttivo, quella demografia e quel controllo sulla
libertà di
circolazione fra gli Stati erano in grado di garantire; o come se fosse
desiderabile rinunciare, insieme agli svantaggi, anche alle
opportunità
potenzialmente offerte da un’organizzazione sociale meno
gerarchica e meno uniformemente
pianificata di un tempo. La via verso una riduzione delle
diseguaglianze capace
di rilanciare la domanda deve oggi necessariamente essere diversa, e
inevitabilmente più complicata, delle ricette di allora; e
la redistribuzione
del costo e dei vantaggi del welfare fra le generazioni, e fra uomini e
donne, non
può non comportare anche svantaggi, e spesso svantaggi non
irrilevanti, anche a
carico di chi oggi è solo relativamente più
garantito rispetto agli altri.
Più
in generale, tanto
la sinistra di matrice variamente socialista quanto il liberalismo
progressista, o quel che proviene da questi due filoni del progressismo
occidentale, non possono non proporsi di
«correggere» in varia misura le
dinamiche spontanee del capitalismo (che del resto, senza quelle
correzioni, ha
sempre dimostrato un grande talento spontaneo anche per
l’autodistruzione); non
credo invece che potrebbe realisticamente aspirare a un ruolo
maggioritario e di
governo delle nostre società una sinistra che si
ripromettesse di escogitare nuove
vere e proprie «alternative» desiderabili
all’economia capitalistica in quanto
tale (ruolo cui, peraltro, il Pd sembra in ogni caso il candidato meno
adatto).
A chi non coltivi un’idea davvero fortemente utopistica della
democrazia è
molto difficile pensare che alternative del genere non conducano ad
assetti
sociali fortemente autoritari, in quanto inevitabilmente privi di quei
forti
caratteri di poliarchia diffusa che sono necessari alla sopravvivenza
di una
società aperta: caratteri che fin qui non sono mai stati
presenti in nessuna
società in cui anche la vita economica non sia stata
fondamentalmente libera.
(Per
non dire che, nel
degradato contesto civile italiano, gravato già prima della
catastrofe etica di
questi anni da pesanti e peculiari deficienze profondamente radicate
nell’“autobiografia
della nazione”, qualunque riflessione generale o di principio
sul ruolo
dell’intervento pubblico in economia deve poi fare i conti
all’atto pratico con
il peso della corruzione endemica, del clientelismo e del familismo
amorale e con
l’influenza della criminalità organizzata, che
rendono ancor più decisiva la
necessità di una forte struttura poliarchica della
società, non solo al fine di
garantire le libertà pubbliche dagli abusi sempre probabili
della politica, ma
anche di non avvantaggiare ulteriormente ladrocinio e razzie su scala
industriale).
In
ogni caso dovrebbe
essere evidente a tutti che nessuno dei vecchi Stati-nazione europei
presi
singolarmente ha la stazza indispensabile neppure per proporre
seriamente al
resto del mondo un mutamento significativo dei paradigmi instauratisi
nei decenni
del Washington consensus
e
pretendere di essere ascoltato e preso davvero sul serio. I vecchi
Stati-nazione europei hanno tutti, nel mondo globale, una
possibilità di far
valere i propri interessi e le proprie proposte paragonabile a quella
che aveva
il Belgio nell’Europa-mondo della prima metà del
ventesimo secolo a fronte di
un vicino prepotente.
Proposte
che sarebbero indispensabili,
perché in un mondo interdipendente credere di poter cambiare
unilateralmente e
profondamente le regole acquisite, per quanto queste possano essere
ritenute sbagliate
e dannose, adottando politiche controcorrente rispetto a quelle dei
propri
partner politici e commerciali sarebbe come pretendere di giocare a
bridge con
le regole del poker senza finir male. E d’altronde non
bisognerebbe neppure mai
mancare di opporre ai critici della globalizzazione che è
proprio
all’interdipendenza economica globale che dobbiamo la fine
del rischio di una guerra
nucleare globale che ci ha accompagnato
come una concreta e reale possibilità per
quarant’anni nel secolo scorso e che
più di una volta abbiamo sfiorato molto da vicino, in
qualche caso senza
neppure accorgercene: è sorprendente quanto poco si rifletta
sul fatto che è grazie
all’interdipendenza economica globale che probabilmente
l’umanità può oggi
ritenere superato il più alto rischio di autoannientamento
sperimentato
nell’intera sua storia, e anche in presenza di dislocazioni
enormi di potere,
di ricchezza e di influenza verso parti del mondo che ne erano escluse
fino a
ieri.
E
però, se la
catastrofe civile dell’Italia ha costituito in questi anni un
caso estremo di
decadimento non solo economico, l’Europa è
comunque la parte del mondo che nello
stesso periodo ha collettivamente subito la più rilevante
retrocessione almeno
relativa, che ha subito la maggiore perdita di influenza globale, e che
sta
soffrendo il più rilevante contraccolpo sulle aspettative e
sul sistema di vita
dei propri cittadini. Ed è quindi la parte del mondo che
avrebbe più interesse
alla ridefinizione dei paradigmi dell’economia globale. Se i
singoli
Stati-nazione europei sono ormai irrilevanti, un’Unione
Europea capace di
autonoma soggettività e iniziativa politica non lo sarebbe
affatto, e avrebbe
ampiamente le dimensioni necessarie per pretendere di far valere
ancora, o di
nuovo, il proprio punto di vista fra le grandi potenze del ventunesimo
secolo.
Tutte
le considerazioni
di Ristuccia sul ripensamento della politica democratica andrebbero
forse
rivolte non solo e non tanto al Pd, quanto alle
“famiglie” politiche europee,
come vengono spesso bonariamente definiti i
“partiti” politici europei e le
loro organizzazioni collaterali.
I
“partiti” europei –
anche quelli che hanno da poco introdotto la possibilità
dell’iscrizione
individuale – sono però, a tutt’oggi,
poco più che cordate di partiti statali
che a livello statale elaborano le loro strategie politiche,
economiche,
sociali, comunicative, e ricevono la loro legittimazione. A livello
europeo,
finora, le cordate si sono formate avendo di mira soprattutto la
spartizione
delle risorse disponibili, e solo in seguito hanno tentato di
raggiungere di
volta in volta, in genere sempre facendo uso dell’innocuo
strumento del consensus, una
qualche omogeneità
politica sulle questioni al momento in discussione – e quasi
mai sulle
prospettive di medio periodo.
È
stato imbarcando il
partito italiano di Berlusconi – e partiti nazionalpopulisti
dell’Est
decisamente altrettanto poco raccomandabili – che anni fa il
Partito Popolare
Europeo si è assicurato con relativa tranquillità
lo stabile ruolo di partito di
maggioranza relativa nel Parlamento Europeo – con tutte le
conseguenze
relative, che certamente non olent.
I
socialisti del Pse non hanno avuto molti problemi ad avallare il
riciclo in
veste di socialdemocratici dei rampolli delle nomenklature comuniste
dei nuovi
Stati membri. Appena un po’ più schizzinosi, i
liberali hanno pensato di
aggregare nel solo gruppo parlamentare le forze politiche ritenute non
abbastanza
omogenee per essere cooptate anche nel partito Eldr o che non
intendevano esse
stesse legarsi troppo strettamente (inaugurando così il
modello ora seguito dal
gruppo socialista per accogliere nelle sole file del gruppo
parlamentare il Pd,
che non può aderire anche al partito per il dissenso degli
ex democristiani); non
senza qualche clamoroso infortunio in cui pure i liberali sono incorsi
nel
passato, avendo inizialmente accolto nel loro gruppo, su pressante
insistenza
di Giorgio La Malfa, la Lega Nord (uscitane poco dopo alla vigilia
dell’espulsione
– e seguita anni dopo da quel che restava del Pri) e il
partito ungherese di Viktor
Orban, poi transitato nel Ppe, che sembrava destinato dopo
l’89 a restaurare la
democrazia liberale in quel paese anziché ad affossarla
nuovamente.
È
però molto difficile
attendersi che i partiti europei prendano davvero forma e divengano il
luogo
dell’elaborazione politica che i partiti statali non possono
più essere, se e
finché in sede europea non si eleggerà un governo
europeo direttamente
legittimato dal Parlamento Europeo – con il Consiglio in
veste, magari, di
Senato o di Bundesrat anziché di organo politico
intergovernativo dirigente,
legiferante e protagonista esclusivo o quasi di tutte le scelte
politiche di
maggior rilievo, al termine di negoziati che devono concludersi con
l’accordo
unanime di 27 delegazioni statali. La situazione cambierà
quando almeno gli
attori principali si renderanno conto che l’alternativa
è solo la catastrofe
comune – sperando che la resipiscenza non intervenga, come
è purtroppo
possibile, fuori tempo massimo. Fino ad allora sarà ben
difficile che i partiti
europei assumano un ruolo guida nell’elaborazione e nella
determinazione delle
scelte di fondo. Ma solo allora i partiti europei saranno obbligati a
ricercare
un’unità non solo, come oggi, di facciata e di
cassa, o nella migliore delle
ipotesi limitata all’orientamento ideologico o ai principi
ispiratori, ma anche
politica e operativa.
Anche
le fondazioni
politiche europee, che da qualche anno sono state costituite per
riunire, coordinare
e far collaborare fra loro le fondazioni e i think tanks
delle diverse “famiglie” politiche, e che il
Parlamento Europeo ha deciso di
sostenere e finanziare per contribuire all’elaborazione di
politiche realmente
europee, sono finora, come i rispettivi “partiti”,
organizzazioni che
riuniscono essenzialmente i think tanks,
le fondazioni e i centri
studi che fanno capo ai rispettivi partiti statali, con gradi di
autonomia o di
dipendenza molto variabili da caso a caso, ma che certamente non
riescono a
fungere da centri di elaborazione delle nuove scelte di fondo di cui ci
sarebbe
bisogno.
È
vero che già oggi
gran parte delle scelte politiche fondamentali viene assunta a livello
europeo,
ma i governi statali si guardano bene dal rischio di sostituire i loro
poteri
di codecisione con un meccanismo di legittimazione democratica. Dal
loro punto
di vista, è più conveniente sottoporre ex
post ai Parlamenti statali i compromessi faticosamente
raggiunti in seno al
Consiglio dai governi e farglieli trangugiare così come
sono, inemendabili, adombrando
irreparabili catastrofi geopolitiche in caso di rigetto. Avviene in
pratica
l’opposto di quel che predica la demagogia antieuropea: il
mancato
trasferimento alla sovranità europea delle decisioni che
richiedono decisioni
europee si traduce non in un maggior controllo democratico su tali
decisioni,
ma nella sostanziale abolizione di ogni meccanismo di formazione
democratica
delle scelte politiche, salvo quello della ratifica estorta con minacce
di
sfracelli ai Parlamenti statali e talvolta al Parlamento Europeo. Da
questo
punto di vista, le polemiche degli euroscettici sul “deficit
democratico” delle
procedure europee sono senz’altro ben fondate, ma il deficit
dipende dal
mancato o insufficiente conferimento di sovranità alle
istituzioni comuni, non
dallo spossessamento di sovranità statali ormai svuotate e
patetiche.
Resta
che, finché
questo nodo non sarà sciolto, finché
cioè non si troverà una classe politica
europea capace di trattare gli elettori da adulti e non da bambini
undicenni
(come espressamente raccomandato da Berlusconi ai suoi candidati,
perché così
stabiliscono le regole della pubblicità commerciale),
sarà difficile che gli
attuali partiti europei e i loro centri studi e fondazioni assumano,
come
sarebbe necessario, il ruolo di effettivi luoghi di elaborazione di
nuove
strategie politiche dell’Europa, capaci anche di tradursi in
proposte di
riforma o di rimessa in discussione dei paradigmi consolidatisi
nell’economia
globale. Non è un caso che la carriera europea sia per lo
più ancora
considerata dalla maggior parte dei politici del continente come una
seconda
scelta, in mancanza di migliori opportunità da percorrere a
livello statale, e
che i risultati delle elezioni europee, non potendo per ora determinare
l’orientamento di un “governo” europeo,
siano interpretati soprattutto come giganteschi
sondaggi nazionali, o come registrazione dei rapporti di forza interni,
in
previsione delle scadenze che davvero contano agli occhi delle classi
politiche
statali.
Si
torna così, mi pare,
al centro del dibattito riaperto da Ristuccia: con quali strumenti
ritrovare un
luogo per l’elaborazione delle scelte politiche e per
recuperare la “vista
lunga” che l’Occidente sembra avere ovunque
smarrito.
È
proprio a partire dall’impasse
in cui si dibatte qualunque tentativo di trovare una soluzione statale
a
problemi che, avendo scala globale, possono essere affrontati solo a
partire almeno
dalla dimensione europea, che, a voler essere molto ottimisti e a voler
proprio
sperare contra spem, anche il Pd
potrebbe ritrovare un ruolo significativo. Se si paralizzano
reciprocamente su molte
altre questioni, le diverse componenti che convivono nel Pd dovrebbero
poter
trovare proprio nel rilancio del progetto europeo il terreno su cui
riaffermare
la propria più decisa caratterizzazione comune. A patto di
non lasciarsi
mettere nell’angolo dalla demagogia che ha certamente fatto
breccia anche nel
proprio elettorato, e a patto di saper affrontare senza
corrività la sfida
della ciarlataneria populista antieuropea, il Pd potrebbe forse
riprendere, nel
dialogo fra partiti e “famiglie” di partiti
europei, e assieme agli altri
soggetti orientati nella stessa direzione, quell’iniziativa
federalista che,
fino all’avvento dell’infausto diciottennio
berlusconiano, aveva sempre contraddistinto
la politica estera italiana, finendo per accomunare tutte le forze
politiche
maggiori. Su questo terreno, forse, potrebbe perfino trovare il modo di
farsi finalmente
contaminare dalle culture politiche di cui ha creduto fin qui di poter
fare a
meno, o che ha vanamente creduto di poter rappresentare da solo con il
suo
personale di ascendenza democristiana o comunista. Non di rado gli
italiani
hanno cercato di risolvere i propri stessi problemi interni attraverso
l’Europa, facendosi forti della scusa dei virtuosi
“vincoli esterni” che
sarebbero stati imposti dall’Europa, quasi che quei criteri
non fossero sempre
stati il risultato di decisioni unanimi che avevano sempre visto
coinvolti
anche i governi italiani. Forse un meccanismo del genere potrebbe
essere oggi
il mezzo per uscire, rilanciando la posta,
dall’incapacità evidente di
assolvere l’ambizioso ruolo che il Pd si era assegnato di
protagonista unico
dell’alternativa democratica interna alla rovina e alla
corruzione populista
degli anni di fango del berlusconismo. Contribuire a costruire lo
strumento
europeo indispensabile per poter concepire politiche nuove è
un compito che,
per quanto poderoso, è forse meno impossibile che pretendere
di farsi
interamente carico da solo della ricostruzione civile
dell’Italia, senza
vedersene riconosciuta dal paese la capacità. Meno
impossibile, forse, il
compito di concorrere a rilanciare lo strumento europeo,
perché la costruzione
della federazione europea è per l’Europa la sola
risposta, alternativa al
suicidio politico collettivo, alla sfida posta dalla storia e resa
più
incalzante dalla crisi: una risposta di cui già molti fra i
più avvertiti
colgono la necessità inderogabile, ma che attende ancora di
essere fatta
propria da parti davvero consistenti dell’establishment
politico europeo. E il
Pd potrebbe avere il peso e anche la collocazione politica necessari
per
concorrere in modo determinante, assieme ad altri, a dare corpo e a
interpretare questa risposta.
Quanto
però ai modelli,
alla capacità di combinare l’apporto delle scienze
sociali con la maturazione
di un intero gruppo dirigente, questo non è solo o
essenzialmente un problema
del Pd, o delle famiglie politiche europee. C’è un
deficit generalizzato e
crescente di educazione alla cittadinanza, una perdita della memoria
storica
comune dell’Occidente e dell’Europa, che nel nostro
continente non è neppure
controbilanciata, come negli Strati Uniti, dal patriottismo
costituzionale e
dalla consapevolezza diffusa dei valori etico-politici che ne
caratterizzano
l’esperienza democratica – per quanto anche
lì questi possano poi essere semplificati,
mitizzati, volgarizzati e spesso manipolati.
È
anche il venir meno
di questa educazione alla cittadinanza che inaridisce l’humus
necessario alla
vita della democrazia rappresentativa e che produce ovunque populismi,
e a
catena i conseguenti imbarbarimenti e mostruosità. Ed
è il trionfo della “barbarie
dello specialismo” proposta nei percorsi di formazione che
spesso rende
indifesi di fronte alla ciarlataneria politica anche i giovani migliori
e più
brillanti, spesso anche vanificando le potenzialità
democratiche della rete. È
la personalizzazione estrema della politica che comporta
inevitabilmente la sua
riduzione a infotainment,
quando non a macchina
del fango, a industria del dossieraggio e del ricatto, allontanandone
le
energie migliori e rischiando di convertire in un nuovo incubo
l’auspicato
“ricambio generazionale”, che alla fine
rischierà di rivelarsi, quando
finalmente arriverà, come quello del 1994 in Italia, solo
anagrafico e generazionale
e non anche politico e civile.
La
crisi della
democrazia europea è così profonda che
difficilmente potrà essere affrontata
solo approntando migliori strumenti di partecipazione politica
– che pure è
certamente indispensabile ripensare e che non possono essere
semplicemente quelli
della vecchia forma partito, tanto meno nella versione sperimentata in
Italia
ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica, per quanto infinitamente
peggiore
sia quel che poi l’ha sostituita.
Sono
le classi
dirigenti, non solo, e forse neppure soprattutto, le classi politiche,
che non sembrano
avere ancora davvero preso le misure dell’entità
della crisi che attraversa
ovunque la democrazia occidentale. Neppure nell’ambito
dell’alta cultura. Nell’attuale
situazione, una tale presa di coscienza è forse la premessa
più urgente, necessaria
e determinante di ogni rinnovamento. Come notava qualche anno fa
Tommaso
Padoa-Schioppa, «in una democrazia non vi sono solo compiti e
diritti del
popolo; vi sono anche compiti e doveri delle élites, senza
il cui corretto esercizio
la democrazia stessa non produce buongoverno e forse neppure
sopravvive».
Da Queste Istituzioni, n. 162, luglio-settembre 2011 (uscita effettiva estate 2012).
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