Heri dicebamus
Un bilancio critico, dall’interno e dall’esterno, della storia politica dei radicali e di Marco Pannella nell’Italia dell’ultimo mezzo secolo. E una proposta rivolta ai radicali del 2016 (due anni prima, cioè, della nascita di +Europa).
Qui un successivo intervento in materia, del giugno 2023.
di
Giulio Ercolessi
Una
stagione remota di successi memorabili
Per
entrare stabilmente
da protagonista e da grande leader liberale nella storia
dell’Italia
repubblicana, a Marco Pannella sarebbe bastato il suo
“decennio magico”, come
credo possa essere definito quello grosso modo compreso fra il 1966 e
il 1976:
fra l’inizio della battaglia per l’introduzione del
divorzio in Italia e
l’ingresso in Parlamento, prima forza politica nazionale a
entrarvi nella
storia della Repubblica che non fosse nata da scissioni di gruppi
parlamentari
preesistenti.
In
quel decennio, un
gruppo che pure non era ancora rappresentato in nessun consesso
elettivo
introdusse per primo nel sistema politico italiano gli strumenti di
intervento
indiretto tipici dei “gruppi di pressione”
democratici che già esistevano da
tempo in democrazie più consolidate, colse di sorpresa gli
attori politici
istituzionali, e riuscì a ottenere l’approvazione
della legge sul divorzio nel
1970 – per la prima volta nella storia della Repubblica la DC
veniva messa in
minoranza su un importante testo legislativo – ; e poi a
provocare l’approvazione
della legge sull’obiezione di coscienza nel 1972 e il
progressivo ampliamento
del suo perimetro di applicazione (ottenuto attraverso una pluriennale
guerriglia giudiziaria radicale davanti ai tribunali militari, ordinari
e
amministrativi e davanti alla Corte costituzionale); a sventare il
tentativo di
abrogare in Parlamento la legge sul divorzio, che avrebbe impedito il
trionfo
referendario nel 1974 (la temuta “lacerazione” del
paese secondo i fautori del
“compromesso storico”); a determinare la
depenalizzazione dell’aborto nel 1975;
a strappare l’attribuzione di tempi televisivi rigorosamente
paritari a tutte
le liste concorrenti alle elezioni politiche nel 1976.
Chi
come me ha vissuto
questa storia dall’interno può ben testimoniare
che ciascuno di questi
risultati è stato la diretta e pressoché
esclusiva conseguenza dell’iniziativa
politica radicale. Che certo si avvaleva anche della sua
capacità di orientare
e condizionare segmenti della classe politica laica (e, nel caso
dell’obiezione
di coscienza, anche cattolica), ma nessuno di quei segmenti di ceto
politico,
anche quando erano consentanei, aveva mai avuto, né avrebbe
avuto senza i
radicali, la capacità e la volontà di imporre
tali questioni all’ordine del
giorno dell’agenda politica italiana.
Quel
Partito radicale,
così visibilmente diverso da tutti gli altri, non esibiva
affatto, a
quell’epoca, il culto della propria incommensurabile
“alterità”.
Eppure,
accanto a quei
tangibili risultati legislativi, il Partito radicale di quegli anni era
anche
il solo soggetto della politica italiana a far propri temi che
sarebbero
diventati decisivi per la crescita civile del paese negli anni e nei
decenni
successivi. Temi la cui apparizione nel dibattito politico italiano
viene
spesso fatta risalire al movimento del ’68, il quale vi era
stato invece del
tutto estraneo. Fu un’iniziativa radicale la nascita del
Movimento di
Liberazione della Donna, il primo movimento femminista italiano (altra
cosa
rispetto ai tradizionali movimenti emancipazionistici della sinistra
tradizionale) che fosse attivo nella sfera politica e pubblica,
anziché
esaurirsi in sedute di “autocoscienza”;
così come furono all’inizio – e per
anni – solo i radicali a sostenere il primo movimento
omosessuale italiano, il
Fuori, la cui federazione al Partito radicale, non molto dopo la sua
nascita,
coincise con il suo abbandono dell’iniziale caratterizzazione
di sinistra assai
tradizionale ed essenzialmente marxista come quella di gran parte dei
movimenti
“alternativi” di quegli anni; anche le tematiche
ambientali ebbero per
protagonista politico il Partito radicale ben prima della nascita dei
Verdi in
Italia. E, ancora, i radicali erano allora il solo gruppo politico a
fare della
laicità, in senso forte, anticoncordatario, un elemento
caratterizzante della
propria fisionomia politica, facendo proprie tutte le battaglie
conseguenti nel
campo dei diritti civili e delle libertà individuali,
all’insegna di un
esplicito e rivendicato “anticlericalismo”, ma
anche in sintonia e in collaborazione
con le minoranze religiose, soprattutto con il mondo protestante e con
importanti
settori del “dissenso cattolico” postconciliare.
Non
erano invece ancora
isolati, all’epoca, i radicali, nella battaglia garantista:
magari perché si
trovava ancora spesso a dover difendere in giudizio i propri militanti
e
dirigenti, spesso ancora discriminati, fino all’inizio degli
anni Settanta la
sinistra tradizionale coltivava ancora l’antica tradizione
socialista di difesa
dei diritti degli imputati nel processo penale. Nel 1971 furono
così i radicali
che aderirono al referendum promosso dalla neonata Magistratura
Democratica per
l’abrogazione delle norme fasciste del Codice penale
– a cominciare dai delitti
d’opinione, incluso, con coerenza, il delitto di vilipendio
della Resistenza –
iniziativa stroncata dal PCI con un editoriale
dell’Unità quando era sul punto
di raggiungere l’obiettivo della convocazione del referendum.
Ma i radicali
sarebbero invece rimasti, in tutti i decenni successivi, i soli
sostenitori
coerenti e intransigenti delle ragioni del garantismo penale.
Era,
in sostanza, quel
Partito radicale, il partito dei diritti civili e delle
libertà individuali, del
culto della legalità istituzionale, della laicità
e della modernizzazione
civile, in un’Italia il cui sistema politico appariva
imbalsamato,
cristallizzato negli equilibri definiti nell’immediato
dopoguerra, incapace di
cogliere i profondi mutamenti culturali indotti dalle altrettanto
profonde
trasformazioni socioeconomiche e demografiche intervenute
nell’ultimo quarto di
secolo; e incapace, addirittura, di adeguare pienamente ai principi
stabiliti
da una Costituzione che aveva già più di
vent’anni un ordinamento giuridico ancora
gravato da molte persistenti caratteristiche introdotte dal regime
fascista.
Questo,
credo, rimarrà
il lascito più duraturo della lunga vita politica di Marco
Pannella, quello di
cui l’Italia laica e liberale gli resterà
riconoscente per sempre.
Un
inizio sorprendente e temerario
Non
era sempre stato
così riconoscibile, però, il Partito radicale
ereditato dal gruppo dei “nuovi
radicali”, succeduto nel 1963 al gruppo storico del
“Mondo” di Mario Pannunzio.
Prima di trovare una propria strada, la strada del tutto disertata dal
resto
della classe politica, delle battaglie laiche, a cominciare dal
divorzio; prima
di incontrare nel settimanale ABC (una pubblicazione semipornografica
per gli
standard dell’epoca) un potente veicolo di contatto con i
“fuori legge del
matrimonio” e farne, con la LID (la Lega per il Divorzio), un
movimento di
massa: prima di diventare, essenzialmente, il partito dei diritti
civili, si
potrebbe dire, a posteriori, che i “nuovi radicali”
si fossero mossi un po’ a
tentoni, in una fase precedente, all’incirca fra il
’63 e il ’67. A tentoni, e
facendo di tutto, prioritariamente, per emanciparsi e smarcarsi
dall’eredità dei
padri del “Mondo”, eredità che soltanto
un decennio dopo avrebbero ripreso ad
amare e a rivendicare come propria. Sola eccezione, fra i radicali
storici, a
entrare abbastanza presto in sintonia con i “nuovi
radicali” nell’ultima fase
della sua vita, era stato Ernesto Rossi, la cui rottura con Mario
Pannunzio
aveva segnato la fine del vecchio Partito radicale.
Di
quel breve periodo
non è rimasta quasi traccia, anche perché quel
partito ereditato dai “nuovi
radicali” era soggettivamente quasi inesistente. Anche
quando, nell’estate del
1971, dimettendomi da vicesegretario provinciale della
Gioventù Liberale del
PLI, mi ci iscrissi io a diciott’anni, le sue dimensioni
erano ancora
lillipuziane, nonostante la LID e nonostante l’enorme
successo politico riportato
con l’approvazione della legge sul divorzio. Il PR era poco
più di un gruppo di
amici romani, composto da circa trecento iscritti, quattordici soltanto
nell’intera Italia settentrionale, e due (due!)
nell’Italia meridionale; oltre
che a Roma, soltanto una sede a Cuneo e una a Reggio Emilia (i milanesi
avevano
quasi tutti abbandonato il partito perché il
“centro” non aveva approvato la
partecipazione di una lista del PR alle elezioni comunali): la terza
sede al
Nord fu quella di Trieste, che fino ad allora aveva ospitato un
giornaletto
locale della sinistra del PLI.
I
primissimi anni,
quelli dimenticati, fra il ’63 e il ’66, erano
stati, dunque, per i “nuovi
radicali”, anni di ribellione “edipica”
nei confronti del “Mondo”, anni la cui
scoperta fu per me, qualche tempo dopo la mia iscrizione,
un’assoluta (e quasi
incomprensibile) sorpresa, come lo fu per molti – soprattutto
per i molti
iscritti di formazione liberale, laica o liberaldemocratica –
che arrivarono
dopo di me, a partire dalla campagna per i “mille iscritti o
scioglimento” del
1972.
È
significativo, ad
esempio, il modo in cui veniva argomentato l’antimilitarismo
dei radicali, tema
forte di quegli anni. Per i liberalradicali come me quel che contava
erano
soprattutto le inammissibili limitazioni e violazioni delle
libertà individuali
imposte indiscriminatamente ai giovani soggetti alla coscrizione
forzata allora
vigente, e per di più in istituzioni militari profondamente
autoritarie e del
tutto impermeabili ai principi della democrazia costituzionale,
limitazioni e
violazioni che per noi rappresentavano nient’altro che una
scandalosa “pena
senza delitto”: una monumentale contraddizione e denegazione,
ancor
più se in tempo di pace, di un principio fondante della
più profonda identità storica
dell’Occidente
liberale quale lo habeas
corpus. Quella sconosciuta storia precedente
dei
“nuovi radicali”
rivelava invece l’origine delle argomentazioni che ancora si
accompagnavano alle
iniziative antimilitariste radicali: un’origine
“pacifista” in senso alquanto
tradizionale, neutralista e alle origini anche esplicitamente
antiamericana e
antiatlantica, analoga, almeno nella forma, a posizioni diffuse nella
sinistra
italiana ed europea degli anni Cinquanta e Sessanta, che solo in
seguito si
sarebbero evolute, nella narrazione di Pannella, in
un’ideologia nonviolenta e
gandhiana, dalle assonanze addirittura buddiste. All’epoca,
le mie proposte di
accentuazioni diverse venivano tacciate di
“psicologismo” dai radicali più
impegnati su quel fronte (in genere si trattava soprattutto di quelli
provenienti o vicini ai gruppi della sinistra extraparlamentare o al
dissenso
cattolico, mentre i radicali maggiormente impegnati nelle battaglie
laiche e
laiciste come me erano per lo più quelli che continuavano a
provenire dalle
file delle organizzazioni giovanili del PLI e del PRI).
Un
percorso accidentato
Quando,
dopo molti anni
e decenni, Pannella rivendicava ancora, in contrapposizione a una
politica
fondata su una qualunque “teoria politica”, la
lunga e concreta “teoria di
fatti” che aveva caratterizzato la storia del Partito
radicale, evocava
certamente un elemento – quello di un certo esibito
antiintellettualismo – di
quella lontana fase della storia del partito, un elemento che era parte
anch’esso della ribellione “edipica”
contro il gruppo del “Mondo”. Ma non
avrebbe potuto neppure fare altro, per avvalorare una qualche linea di
continuità fra le numerose reincarnazioni che il Partito
radicale aveva
attraversato. A cominciare dal misconosciuto partito di quegli anni
lontani dei
primordi, che, benché il suo gruppo dirigente fosse composto
quasi per intero
da ex liberali già iscritti al PLI, aveva adottato come
stella polare l’”unità
socialista della sinistra”. E aveva individuato come
principale
interlocutore niente meno che il PCI,
appena poststalinista, di quei primi anni Sessanta:
“l’alleanza dei cretini”,
secondo uno sferzante editoriale del “Mondo” di
qualche anno prima: un
gobettismo fuori tempo massimo, e a natura del comunismo ormai
ampiamente
conoscibile e conosciuta. E stipulava semmai intese elettorali per le
elezioni
amministrative con il PSIUP, il partito dei socialisti massimalisti.
Per
continuare poi nel “mio” partito laico e libertario
dei diritti civili successivamente
emerso con il divorzio, l’obiezione di coscienza e
l’aborto degli anni
successivi, il partito, anche, dei movimenti gay e femministi, il
partito in
sintonia, molto più di qualunque altra forza politica, con
un forte bisogno di
modernizzazione della società italiana. Successivamente, a
metà degli anni
Settanta, in quello della “Rosa nel pugno”
mitterrandiana, il partito di un
Pannella ancora e più che mai profondamente francofilo, a
tratti davvero
francomane, che pensava se stesso nei panni di un Michel Rocard
italiano, lievito di
un’alternativa unitaria di una sinistra di governo, ma ora a
guida socialista
anziché comunista, e contrapposto alla strategia
berlingueriana e morotea del
“compromesso storico”. Poi l’abbandono
della mitizzazione della “sinistra” alla
fine di quel decennio, e però anche l’improvvisa
conversione del focus delle
priorità radicali, “dai
diritti civili alla fame nel mondo”, quando per qualche anno
il partito, già
anticlericale, seguì il suo capo, ormai indiscusso, e forse
nel mezzo di una
delle sue ricorrenti fasi di personale ricerca religiosa (quasi sempre
soprattutto
religioso-cattolica), nella rincorsa all’alleanza planetaria
con il Papa
polacco, per cercare di coinvolgerlo in una strategia di lotta contro
la fame,
fondata sostanzialmente su aiuti finanziari che avrebbero dovuto essere
elargiti dai paesi del Nord del mondo (nessuna prefigurazione, allora,
dell’imminente processo di globalizzazione e liberalizzazione
dei commerci, e
della soppressione delle barriere tariffarie, come leva principale
dello
sviluppo; e addirittura nessun accenno alla necessità di una
politica non
autoritaria di controllo delle nascite fondata sui diritti
all’autodeterminazione riproduttiva delle donne). Poi,
ancora, il cambio
radicale di riferimenti geopolitici ideali, dalla Francia –
ed essenzialmente
dalla sinistra francese – fino a quel momento, agli occhi di
Pannella, faro di
ogni libertà e matrice di ogni idea innovativa, ai paesi che
egli, con un
significativo francesismo, ha sempre chiamato, come faceva
l’antica cultura
italiana, “anglosassoni” (quando
“anglosassone”, in inglese, è solo la
cultura
e la lingua della popolazione che abitava l’Inghilterra prima
dell’invasione
normanna dell’XI secolo: prima, cioè, della
conseguente nascita del popolo e
della lingua inglese). E infine l’improvvisa
scoperta
dell’uninominale secca
prima, apoditticamente assunta a sola possibile chiave di volta di ogni
vera
democrazia, e del liberismo friedmaniano poi.
E
i radicali divennero
liberisti. L’economia era stata in precedenza per Pannella e
per il suo partito
solo un ambito narrativo dove evocare vagamente modelli di socialismo
utopistico
e “autogestionario”, non burocratici e nelle
intenzioni non autoritari, ma
decisamente alternativi al capitalismo: fino al punto di prendere sul
serio le
elucubrazioni francesi della CFDT ai tempi dell’occupazione
della “Lip” (la
fabbrica di orologi che aveva continuato la produzione nello
stabilimento per
mesi occupato dagli operai) e perfino – ne sono personalmente
testimone –
quella finzione di regime che fu l’“autogestione
socialista” nella Yugoslavia
di Tito.
Io,
che come molti
altri avevo raggiunto i radicali precisamente a motivo della politica
dei
diritti civili e delle battaglie laiche, avevo sempre nutrito parecchio
fastidio per queste elucubrazioni, che però consideravo del
tutto innocue e
marginali, anche perché mai – proprio mai
– tradottesi in iniziative o
battaglie politiche concrete di qualsiasi sorta. Come molti liberali
progressisti all’epoca – io ero certamente di
quell’avviso ancora verso la fine
della mia vita politica radicale all’inizio degli anni
Ottanta – ero d’altra
parte del tutto convinto che, semplicemente, come proprio
l’esperienza
socialista francese stava dimostrando, non fossero possibili in
Occidente
politiche economiche fortemente divergenti da quelle dei principali
partner
commerciali e dai fondamenti della costituzione economica stabilitasi
dopo la
guerra in Occidente, e in particolare nell’Europa
occidentale, e garantiti
dagli equilibri internazionali e dai processi di integrazione europea:
in
nessun caso, comunque, ritenevo possibili politiche economiche tali da
poter
mettere davvero in questione per quella via i fondamenti della
democrazia
liberale. Gli equilibri internazionali esistenti, e almeno le linee di
fondo
dei sistemi politici ed economici, sembravano fino al 1989 immutabili
se non
attraverso una guerra nucleare annientatrice (di qui, anche, la convinzione dell’inutilità, oltre che dell’iniquità,
di mantenere in essere forze armate di dimensioni pletoriche e basate
su una coscrizione forzata di massa e su una indiscriminata
deprivazione delle libertà costituzionali, sempre più
intollerabilmente imposte anche a cittadini privi di qualunque
vocazione per la vita militare). Il problema della
sostenibilità
finanziaria e demografica del welfare non era stato posto
all’ordine del giorno
fino ad allora né da noi né da alcun gruppo
politico italiano di grande rilievo.
Certamente sottovalutavamo le conseguenze dell’accumulo del
debito pubblico da
parte della classe politica. Caso mai, era la corruzione che piuttosto
ci
sembrava, già allora – almeno fin
dall’epoca del primo scandalo petroli dei
primi anni Settanta – problema non solo politico ma anche
economico di prima
grandezza.
Già
da tempo uscito dal
partito, ricordo, quindi, di avere ascoltato tra l’incredulo
e il divertito
l’entusiasmo da veri neofiti con cui i radicali si erano
quasi tutti, e tutti assieme, gettati a
capofitto nel nuovo corso radicalmente liberista indicato dal capo
carismatico.
Fra
partito e comitato di sostegno
Tornando
invece ai
tempi della mia decennale militanza nel PR, un anno dopo il primo
ingresso dei
radicali in Parlamento, nel 1977 al congresso di Bologna, avevo fatto
parte di
una corposa e agguerrita minoranza del gruppo dirigente –
circa un terzo del
partito al congresso, nonostante il ritiro della mozione finale
– che, oltre a
subire con crescente fastidio l’incomprensibile simpatia
“esistenziale” di Pannella
per alcuni gruppi della sinistra extraparlamentare, auspicava
l’evoluzione del
PR in una forza politica più strutturata e non affidata
soltanto, nella
sostanza, all’imprevedibile inventiva del leader, e
all’entusiastica esecuzione
ed imposizione “muscolare” della linea da parte di
volonterosi sub-leaders
(quasi
tutti destinati a finire prima o poi vittime a loro volta di altri sub-leaders
a
loro succeduti). Va però anche detto che per lungo tempo era
stato proprio
Pannella, resistendo alla sua stessa natura, e avvertendolo
contraddittorio
con le politiche libertarie del partito, che aveva fatto di tutto per
sopprimere, o almeno contenere, o almeno occultare,
l’evidente progressivo
emergere della propria leadership prettamente carismatica: fino al
1974, cioè
proprio fino all’anno della mia segreteria, una segreteria
significativamente collegiale,
che di quello sforzo di self-restraint
di Pannella fu
probabilmente una delle ultime manifestazioni, e forse proprio
l’ultima.
Dopo
il congresso del
‘77, mentre altri esponenti di quella prima opposizione
interna avevano
abbandonato il partito o erano rientrati nei ranghi, io – che
nel frattempo ero
stato eletto assieme a Pannella consigliere comunale a Trieste, dove
infuriava
la polemica sul trattato di Osimo – avevo continuato, assieme
ad altri, a
contestare quel modello di leadership, più per
testardaggine, riconosco, che realisticamente
fidando in una possibile diversa evoluzione. Tale forma di dissenso
interno si
sarebbe rivelata anche più nutrita numericamente di quella
del 1977 in qualche
occasione congressuale – come per esempio a Genova nel 1979,
quando la sua
presenza costò indirettamente l’elezione alla
segreteria del candidato di
Pannella Giovanni Negri, aprendo la strada invece a quella di Geppi
Rippa, che
non ne costituiva, per la prima volta, la diretta proiezione
– ma è innegabile
che, a differenza della prima, questa seconda stagione di dissenso
interno aveva
ormai soltanto carattere metodologico e statutario: lamentavamo la
“costituzione
materiale” del PR di quegli anni, ma eravamo un gruppo di
insoddisfatti troppo
eterogeneo per poter esprimere una proposta politica realmente
alternativa, che
andasse al di là della richiesta di consentire la nascita di
un partito
realmente presente ad ogni livello nella vita politica del paese, al
posto del drappello
di militanti a supporto delle mutevoli e spesso inattese iniziative del
leader e dei suoi umori,
in cui il PR si era ormai trasformato.
Così
alla fine, dopo un
decennio nelle sue file, lasciai un Partito radicale in cui non mi
riconoscevo
più, proprio poco dopo la sua già ricordata
riconversione “religiosa” da partito dei
diritti civili in partito per alcuni anni totalmente assorbito nella
lotta
globale alla fame nel mondo: quando a Radio Radicale i democristiani
divennero
improvvisamente “democratici cristiani”.
Con
quello lì, una “rivoluzione liberale? Gli
impossibili alleati nel bipolarismo
italiano
La
mia rottura definitiva
con Pannella non era stata per nulla amichevole. Ma il momento di
massima
lontananza fra me, ormai da tempo non più iscritto, e il
partito radicale
(credo certamente comune anche a innumerevoli altri ex radicali del
più vario
orientamento e della più varia provenienza che ne avevano
vissuto precedenti
stagioni politiche), lo vissi all’inizio degli anni Novanta,
quando – come
spesso gli accadeva, sopravvalutando molto la forza soggettiva del suo
personale carisma anche al di fuori del perimetro della
comunità radicale –
Pannella aveva creduto di poter spingere niente meno che Silvio
Berlusconi – un
uomo che fino ad allora doveva tutto agli scambi e ai favori della
peggiore
politica della cosiddetta “Prima Repubblica”
– a divenire, proprio lui, il
promotore di una “rivoluzione liberale” in Italia.
A me, che pure, poco ancora
conoscendone, non avevo in precedenza nutrito alcuna particolare
avversione per
il Berlusconi imprenditore televisivo, era bastata la sua prima
conferenza
stampa politica, nel novembre 1993, per formulare da subito il
più drastico
giudizio negativo possibile sul suo conto, giudizio che quel che
avvenne in
seguito – l’“età
berlusconiana”; il berlusconismo divenuto modello politico
italiano
dominante e sostanzialmente privo di alternative fino ai nostri giorni;
l’ulteriore sprofondamento e declino civile ed economico del
paese anziché la
promessa “rivoluzione liberale” – avrebbe
confermato e radicalizzato ogni
giorno di più negli anni successivi.
Le
costrizioni determinate dalle leggi elettorali e la nuova ideologia
bipartitista di Pannella lo spingevano magari obbligatoriamente a
tentare di
schierarsi in uno dei due campi, confidando erroneamente sul
presupposto che
entrambi lo avrebbero potuto considerare come un ago della bilancia e
ne
avrebbero apprezzato e ricercato per questo il sostegno pubblico. Ma,
se il
centrosinistra italiano era divorato dalla spocchia egemonica del PD e,
come
tutte le socialdemocrazie europee, già annaspava a vuoto,
essendo venuti meno i
presupposti del loro modello inclusivo un tempo virtuoso – la
vecchia società
industriale si basava su tecnologie scomparse, su una demografia ormai
capovolta e sull’onnipotenza dello Stato in campo economico entro frontiere
chiuse – la
vera destra italiana, dal suo canto, non era proprio mai stata
liberale, e
tanto meno era sul punto di diventarlo ora. La vera destra italiana
– non la cosiddetta
Destra Storica, che era stata in realtà la parte moderata
del progressismo risorgimentale
– è stata, nel corso della storia unitaria del
paese e delle sue diverse fasi,
reazionaria, codina, clericale, protezionista, nazionalista,
colonialista,
guerrafondaia, imperialista, militarista, liberticida,
corporativa, fascista,
antisemita,
filonazista, qualunquista, conservatrice, tradizionalista, statalista,
anticonflittuale, moderata, antimoderna, omofoba, xenofoba, eurofoba,
sovranista, populista. Liberale mai. E
neppure, al di là delle
chiacchiere episodiche, liberista. Ed entrambi i campi della politica italiana, per pregiudizio
tanto
atavico e inestirpabile quanto empiricamente infondato, hanno sempre
continuato
a considerare come ago della bilancia non la laicità
liberale ma semmai il
clericalismo estremista cattolico. Così il bipolarismo
italiano, proprio in
quel periodo, e all’opposto delle aspettative di Pannella,
consentiva alla
gerarchia cattolica, sotto la guida di Ruini, di mascherare, con
clamorosi
quanto effimeri successi politici di vertice, l’avanzata
irresistibile nella
società italiana di una secolarizzazione galoppante.
Una
certa idea dell’Occidente
Ma
questi dissensi – il
dissenso sulla caratterizzazione sempre più apertamente
carismatica della
leadership dalla metà degli anni Settanta, il mio relativo
disinteresse o
scetticismo per molte delle priorità che i radicali si davano in varie
successive stagioni politiche, lo stesso assoluto dissenso nei
confronti della
politica delle alleanze nei primi anni Novanta – non hanno
mai potuto
cancellare sintonie anche profonde che emergevano di volta in volta
sotto
traccia, a testimoniare l’innegabile persistenza di un
terreno comune, di una
sensibilità politica condivisa su alcuni temi di fondo che
riguardano
un’interpretazione esigente dei principi del liberalismo
occidentale e della
sua vocazione universalistica, che credo non coinvolgano affatto
soltanto me,
ma anche moltissimi italiani che, attraverso i decenni, hanno
partecipato,
sostenuto, votato, approvato, attraversato, avvertito una vicinanza nei
confronti dei radicali, che per qualche ragione – e spesso
per ragioni di
grande peso e rilevanza contingente – non ha quasi mai potuto
concretarsi in
qualcosa di più solido e duraturo. Si potrebbe forse
riassumere questa
sensibilità e queste sintonie in una formula: critica
dell’Occidente in nome
dei principi giuridici e dei valori etico-politici
dell’Occidente.
Al
di là della scontata
piena condivisione di alcune battaglie radicali, come per esempio
quella garantista
ai tempi del caso Tortora o quelle dell’Associazione Coscioni
in campo bioetico
– a cominciare da quelle sul fine vita – e di Certi
Diritti in materia di
politiche LGBT, o di quelle antiproibizioniste, se dovessi indicare, a
puro
titolo di esempio, un momento emblematico in cui personalmente, e
nonostante
tutti i dissensi passati e gli scontri anche accesi e diretti, mi sono
sentito
rappresentato in questi anni proprio da Marco Pannella, mi verrebbe da
citare
prima di tutto il funerale di Anna Politkovskaja, dove egli, pur reduce
da
poche ore da un delicato intervento di cardiochirurgia, e ancora
parlamentare
europeo, fu il solo uomo politico straniero a essere presente a
rappresentare
la coscienza liberale del’Occidente europeo.
I
limiti invalicabili della comunità carismatica
Sarebbe
inutile però
negare che il dissenso sul modello di leadership è stato,
per me come, credo si
possa davvero dire, anche per molti altri, un ostacolo insuperabile che
mi ha
impedito di poter mai neppure pensare di risintonizzarmi, neanche
successivamente, sulla linea d’onda del Partito radicale,
preferendo rimanere
per decenni homeless,
e “orfano” di
qualunque affiliazione politica italiana. Me ne ero andato quando mi
era
apparso ormai evidente che iscriversi al Partito radicale consisteva
nell’iscriversi a quel che di volta in volta sarebbe venuto
in mente a Pannella
nei dodici mesi successivi. E negli anni seguenti, in più
occasioni, mi è poi accaduto
di incontrare casualmente vecchi militanti e dirigenti radicali, alcuni
dei
quali mi avevano anche fortemente osteggiato all’epoca delle
mie polemiche con
l’establishment radicale, ma poi magari caduti in disgrazia
agli occhi del
leader, che (riconosciutomi, con mia enorme sorpresa, a decenni di
distanza) tenevano
a raccontarmi come, alla fine, anche loro avevano abbandonato il
partito
proprio per le ragioni che, assieme ad altri, avevo sostenuto molti
anni prima.
Tutta gente irrecuperabile a un impegno civile e politico futuro? Credo
che la
risposta non sia scontata.
Il
fatto è che Pannella
aveva una capacità di innamorarsi delle proprie intuizioni
che era perfino
superiore alla sua pur enorme forza di convinzione nei confronti della
maggioranza dei membri di quella
“comunità” che il Partito radicale era
diventato, a dispetto dell’iniziale teoria organizzativa, che
voleva limitare
il ruolo del partito a quello di mero strumento di puntuali obiettivi
politici,
a fronte e contro il carattere “tribale” attribuito
alle altre forze politiche.
Anzi, credo che proprio riuscire visibilmente a cambiare il modo di
essere e di
pensare e la vita stessa dei propri simili con la forza della propria
personalità, delle proprie argomentazioni e delle proprie
suggestioni,
costituisse per Pannella la massima delle gratificazioni personali.
Ricordo
che, con una significativa espressione, Pannella imputava sempre la
mancata
accettazione, o anche la carenza di entusiasmo per qualunque sua nuova
intuizione
di cui egli stesso fosse per primo entusiasta, da parte mia e di altri,
a una mancanza
– l’espressione è sua – di
“generosità intellettuale”
(qualità, o caratteristica,
di cui, non ho difficoltà a riconoscerlo senza alcun
rammarico, sono sempre
stato del tutto privo, avendole sempre semmai preferito un eccesso di
spirito
critico individuale).
Così
come ricordo che
un mio predecessore nella carica di segretario del partito, volendo
sottolineare polemicamente una mia estraneità di fondo alla
sostanza della
comunità radicale, mi imputò una volta, nel corso
di un Consiglio federativo,
di essere arrivato al PR, benché giovanissimo,
“già saputo” (sic): ben più
affidabile doveva invece essere ritenuto in quel partito chi dovesse
l’intera
formazione della propria personalità politica e culturale
all’esercizio sul
campo della militanza politica “di strada”, ai
banchetti, ai digiuni, alle
marce, alle raccolte fondi, ai sit-in. E in effetti così si
era venuta
formando, negli anni, buona parte della classe politica radicale: ed
è proprio
per questo che non può sorprendere il successivo
sparpagliamento trasversale
dei transfughi su uno spettro così ampio del sistema
politico italiano. Da un
certo punto in poi il cemento fornito da una comune cultura politica si
è
rivelato molto debole se non inesistente, e ciascuno dei transfughi ha
prolungato, perseguito e sviluppato per proprio conto la propria
personale “teoria
di fatti”, con esiti spesso bizzarri, e talvolta davvero
privi di qualunque
riconoscibile filo di continuità che non fosse quello della
sopravvivenza
personale.
Per
molti altri, e
indipendentemente dalla condivisione di principi e valori di fondo o di
concreti obiettivi politici, e soprattutto per molti cittadini di
formazione e
di mentalità laica e liberale, vi è stata
semplicemente una obiettiva
impossibilità di ritrovarsi a casa propria in un partito la
cui struttura di
fondo – lo avevano notato, per primi, subito dopo la nostra
sconfitta
congressuale del 1977, due miei compagni di partito e di
“corrente” di allora,
i giovani politologi Angelo Panebianco e Piero Ignazi –
ricalcava in modo
impressionante il modello idealtipico puro della leadership carismatica
delineato da Max Weber all’inizio del Novecento. Si parva licet, morto de Gaulle, in
Europa i soli partiti davvero
carismatici esistenti all’epoca erano il PR in Italia e il
PASOK di Andreas
Papandreu da poco costituitosi in Grecia.
D’altra
parte, dato che
per l’immagine dei partiti quel che conta alla fine
è soprattutto l’imprinting
iniziale,
il fatto che il Partito radicale ci fosse, che fosse ritenuto per
antonomasia
il partito laico dei diritti civili (perfino quando la
priorità data
all’alleanza con il mondo cattolico per la battaglia contro
la fame aveva
suggerito di accantonare del tutto queste tematiche per
vent’anni di fila), rendeva
improponibile qualsiasi progetto di riorganizzazione di una
rappresentanza
dell’area politica laica, liberale, federalista europea,
tendenzialmente
liberista, antiproibizionista: cioè di un partito al tempo
stesso progressista,
e alfiere della modernizzazione civile, politica, economica e
ambientale, di un
partito che mirasse a fare dell’Italia una società
aperta e autenticamente
europea e occidentale. Non avrebbe avuto senso fondare un tale partito
in
concorrenza con i radicali, ma non sarebbe neppure stato possibile, per
le
ragioni dette, pretendere che tutta quell’Italia – o anche soltanto una sua parte consistente – si
riconoscesse nei radicali
così com’erano.
E
adesso, cari radicali?
Ora
che Pannella non
c’è più, non è sui dissensi
passati che mi sembra valga la pena di interrogare
i radicali, ma sul futuro. Solo per questo, e dopo che da decenni avevo
smesso
di rievocare storie da tempo concluse, ho cercato di esporre con la
massima
franchezza le ragioni che credo abbiano impedito in questi anni, non
solo a me
ma a molti italiani, pur largamente consentanei con i radicali su molti
principi di fondo, di riconoscersi nelle diverse reincarnazioni
successive del
mio vecchio PR (la Lista Pannella, la Rosa nel Pugno, la Lista Bonino
– forse
la formula che ci è andata più vicino –
i Radicali italiani, il Partito
transnazionale; per non dire di quelle che, come gli
antiproibizionisti,
nascevano già monotematiche). Di riconoscervisi abbastanza
da consentire ai
radicali non solo di sopravvivere, ma di affermarsi come uno dei
protagonisti
della vita politica italiana anche all’interno delle
istituzioni
rappresentative.
Credo
di non far torto
a nessuno dicendo che presumibilmente nessuno, né oggi
né nel futuro prevedibile,
può davvero pensare di potersi proporre come il successore
di Pannella nel suo
ruolo di leader carismatico. Dopo Pannella, e a confronto con
l’eredità di
Pannella, è verosimile che chiunque ci provasse non potrebbe
che rendersi
protagonista di una parodia.
Allo
stesso modo, mi
sembra che sarebbe estremamente riduttivo e senza prospettive cercare
di
tornare indietro nel tempo, e di riproporre, come se il tempo non fosse
passato, le esperienze che, nelle diverse e ricordate reincarnazioni,
ciascuno
dei passati protagonisti ha vissuto con maggiore intensità.
La “Rosa nel
Pugno”, tanto per fare un esempio, poteva avere senso, per
chi ci ha creduto,
all’indomani della dissoluzione del vecchio sistema politico,
della fine del
vecchio PSI – che certo per molti era stato, nelle diverse
fasi della sua
storia centenaria, ragione di identità e di investimento
emotivo oltre che
intellettuale e politico – e quando ancora era viva, e per
molti non del tutto
appannata o motivo di delusione storiografica e retrospettiva, la
stagione del
mito italiano di Mitterrand (cui molto aveva contribuito proprio
Pannella). Che
senso avrebbe oggi, in piena crisi di tutte le socialdemocrazie
europee, e dopo
più di vent’anni in cui la variegata diaspora
socialista italiana è stata spesso
incapace di non farsi interamente assorbire dagli aspetti meno
raccomandabili
dello Zeitgeist
di questo passaggio di
secolo?
E
del resto è un fatto
che la presenza radicale nelle istituzioni è già
scomparsa da tempo.
Potrà
mai andar meglio di com’è andata
a giugno?
E
mi pare tremendamente
significativo, a questo proposito, quanto avvenuto nelle scorse
settimane alle
elezioni comunali di Roma e di Milano.
Sulla
carta, le liste
radicali alle scorse amministrative si presentavano nelle migliori
condizioni
che sia dato immaginare nella deprimente situazione di degrado civile
dell’Italia di oggi: delle sue istituzioni, dei suoi media,
delle sue leggi
elettorali.
Non
ci si può, ancora
una volta, consolare con l’argomento che i voti ottenuti
vanno in realtà
considerati e valutati sulla base del numero degli elettori che erano
effettivamente a conoscenza dell’esistenza, delle proposte e
della natura delle
due liste radicali di Roma e di Milano. Intanto, l’interesse
per i fatti della
politica è, ormai fisiologicamente – e purtroppo,
piaccia o non piaccia,
ovunque in Occidente – limitato a una parte soltanto del
corpo elettorale; e
tra questi, gli elettori che non si accontentano di prendere al massimo
in
considerazione soltanto le principali opzioni proposte dai gruppi
politici insiders
sono strutturalmente una minoranza; inoltre va considerato che ciascuna
delle
due liste poteva vantare come capolista un consigliere uscente di
grande
spessore e che aveva saputo farsi valere quanto può farlo un
consigliere
comunale; soprattutto, il sistema dei media in Italia è
quello che è, e non
dovrebbe esserci certo bisogno di illustrarlo proprio ai radicali; last
but not least,
anche se potrà essere considerato di
cattivo gusto sottolinearlo, non ci sarà mai più
una copertura mediatica altrettanto
ampia come questa volta: sarà anche vero che i media possono
aver fatto di
tutto per separare l’amplissima copertura data alla morte e
al funerale di
Pannella dalla notizia della partecipazione delle due liste alle
elezioni
comunali, ma l’esplicito invito al voto da parte di Emma
Bonino ha usufruito di
un’audience
irripetibile, e chi avesse avuto un minimo di interesse e di
curiosità avrebbe
potuto informarsi, questa volta, più agevolmente e
più facilmente che mai.
Né
mi sembra che le
conseguenze della evidente contrapposizione interna ai radicali, con le
sue ovvie
ricadute sulla rete di risorse di cui l’area radicale
teoricamente dispone, e
di cui la campagna elettorale amministrativa avrebbe dovuto
maggiormente giovarsi,
siano destinate a un prevedibile superamento. (A quest’ultimo
proposito, devo
dire che conosco bene la sindrome, avendola vissuta in
gioventù, che coglie
chi, molto avendo investito della propria esistenza in un patrimonio
comune, se
ne vede escluso con metodi a dir poco scorretti e sleali – il
modello weberiano
della leadership carismatica non prevede correttezza, né
lealtà ad altro che a
se stessa – e finisce per incaponirsi nel non volerla dar
vinta – o almeno nel
volerla far pagare – agli autori del sopruso, talvolta
però con il risultato principale
di perdere ulteriore prezioso tempo ed energie. Proprio per questo, mi
permetto
di suggerire che, se le risorse non saranno comunque, come mi pare di
aver
capito, nella disponibilità di chi dovesse regolarmente
vincere la partita interna
sul piano politico, non avrebbe senso trascurare di impegnarsi in una
partita
politica più grossa per tentare di avere soddisfazione in
quello che alla fine si
rivelerebbe un puntiglio quasi nominalistico).
Non
solo le due liste di
Milano e di Roma non hanno raggiunto la soglia necessaria a far
scattare
l’elezione di un consigliere comunale: quel che
più conta è che, in quelle che
sono sempre state due delle maggiori e consolidate roccaforti
elettorali
storiche dei radicali (come pure degli azionisti, dei liberali e dei
repubblicani),
non è stata raggiunta la soglia che sarebbe necessario
superare sull’intero territorio
nazionale per
poter ottenere una qualche rappresentanza, tanto alle elezioni
politiche quanto,
e ancor più, alle elezioni europee.
Probabilmente
(a torto
o a ragione, ma è un fatto contro cui battere la testa
contro il muro non
sembra utile), l’esperienza radicale evoca ormai, alle
orecchie della larga
maggioranza degli italiani, la memoria di una stagione importante e
anche
grande della storia nazionale, ma di una storia ormai remota, e
sostanzialmente
conclusa anch’essa con la fine della cosiddetta
“Prima Repubblica”; e forse
anche di una storia imparentata, anche se è storicamente
falso, con quella dei
“movimenti” nati dopo il ‘68 (e qui il
gusto del paradosso di Pannella, e il
suo bizzarro rapporto con i gruppi extraparlamentari di quegli anni,
probabilmente ha avuto un suo peso). Soprattutto, di una storia
indissolubilmente legata, come egli stesso in fondo aveva voluto, alla
persona
e alla vita di Marco Pannella. E questo forse spiega anche il
paradossale
carattere pressoché unanimistico assunto dalle
commemorazioni funebri in cui è sembrato
unirsi l’intero establishment politico e mediatico italiano
in occasione della
sua scomparsa, quasi che il suo passaggio alla storia lo avesse ormai
reso,
agli occhi di gran parte della società italiana, una figura
non più controversa
e divisiva come era sempre stato in vita: un protagonista della storia
della
Repubblica, e non più della sua politica contemporanea, e
quindi al di sopra e ormai
al di là delle sue fratture e delle sue divisioni.
Come
sperare, in queste
condizioni, di potere andare avanti, di non sprecare un patrimonio
ideale e un serbatoio
ancora significativo di energie, consensi e impegno civile, di dare un
seguito
a una storia pluridecennale, senza una profonda ridefinizione della
proposta
politica, dell’elettorato di riferimento, dello stesso
marchio?
Oltre
il mondo radicale, c’è anche
un’Italia laica e liberale che non ha rappresentanza
politica
Penso
che il risultato
delle elezioni comunali di Roma e di Milano delle scorse settimane sia
davvero
il segno dell’impossibilità di riemergere senza un
profondo processo di
rifondazione, che miri a coinvolgere, assieme e a partire dai radicali
e alla
loro esperienza storica, politica e culturale, un’area
politica più vasta, anche
se oggi per nulla maggioritaria, quella dell’Italia laica,
liberale, europeista,
antipopulista, aperta all’Europa e al mondo, interessata alla
certezza del
diritto anziché ai favori, agli abusi, alla
discrezionalità e all’arbitrio
della politica. L’Italia che magari si è
più volte illusa in questi anni di
avere finalmente trovato rappresentanza in forze politiche, e in
politicanti,
che si sono presto sistematicamente rivelati per quello che erano:
consorterie
senza principi e senza il minimo valore civile, capaci solo di
rincorrere i
risultati dei sondaggi dell’ultima ora e di competere, tutte,
sullo stesso
terreno e per il consenso dello stesso elettorato maggioritario, al
tempo
stesso disgustato e inconsapevolmente diseducato da decenni di politica
fangosa.
Non
sono infatti
soltanto i radicali a essere esclusi dalla rappresentanza e dalla
visibilità
politica, nell’Italia di questi anni. Non sono neppure
soltanto coloro che, nel
corso dei passati decenni, hanno attraversato in vari modi la vicenda
radicale
e, per le ragioni che ho cercato di delineare, non hanno potuto
riconoscersi
stabilmente a casa propria nonostante sintonie di principio anche
profonde.
È
tutta l’Italia che
insiste a riconoscersi nel progetto storico incompiuto della
modernità laica,
illuminista, liberale e occidentale a essere senza rappresentanza.
È l’Italia
che riconosce la propria patria non nel campanile ma in
un’Europa aperta alle
sfide della globalizzazione, e che nella globalizzazione vuole
affermare i
valori e i principi politici e giuridici della tradizione liberale,
laica e
individualistica occidentale. È l’Italia della
“nuova classe creativa” in fuga
verso luoghi in cui le sono riconosciuti sia opportunità
economiche, sia
libertà, dignità individuale e talento.
È l’Italia che è consapevole di avere
bisogno dell’Europa come dimensione minima per continuare ad
esistere, ma che comprende
anche che l’Europa deve essere realmente legittimata ad agire
da istituzioni
che siano finalmente democratiche anziché ostaggio dei
governi e delle
corporazioni nazionali. È l’Italia soffocata da
una classe politica, da una
burocrazia e da istituzioni parassitarie e sempre più
invadenti nonostante le
ripetute promesse di segno opposto, che la stanno condannando a un
declino che
sembra irreversibile, e che ostacolano ogni forma di innovazione, ormai
vitale
nell’economia globale. È l’Italia che
chiede la certezza delle regole e non
l’arbitrio assoluto della politica che una riforma
costituzionale scritta da
sprovveduti vorrebbe ampliare ancor più. È
l’Italia che, all’opposto, crede che
solo il restringimento dell’ambito del potere discrezionale e
arbitrario della
politica possa combattere efficacemente la corruzione endemica e la
stessa
criminalità organizzata, e comprende che pensare di poter
delegare interamente
questo compito alla repressione penale non è solo pericoloso
per le garanzie
delle libertà individuali, ma anche illusorio e puerile. Che
proprio per
questo, molto più che in nome di pregiudiziali ideologiche
novecentesche,
ritiene necessario un ridimensionamento del ruolo della classe politica
nell’economia oltre che nelle vite private dei cittadini, ma
che non per questo
intende rinunciare a un welfare universalistico, che sia ripensato per
poter
essere sostenibile nel tempo e non discriminatorio, soprattutto nei
confronti
dei più giovani. Che non sopporta un’etica di
Stato che pretenda di regolare le
scelte di vita dei cittadini e che, aperta
all’universalità dei diritti, non
accetta che la diversità culturale o religiosa possa
diventare una
giustificazione o un pretesto per limitare la libertà di
espressione, le
libertà di alcune categorie di individui, o delle minoranze
all’interno delle
minoranze. È l’Italia, forse minoritaria, che non
ne può più della ciarlataneria
politica e che dalla politica pretende prima di tutto
responsabilità e serietà.
Non
è, inutile
nasconderselo, in questo momento storico e dopo un buon terzo di secolo
di
ulteriore imbarbarimento e di sistematica diseducazione civile di
massa,
un’Italia maggioritaria. Proprio per questo le forze
politiche a vocazione
immediatamente maggioritaria non possono neppure sperare o tentare di
intercettarla.
È un’Italia che in questi anni si è
quasi sempre dovuta piegare a votare per il
male minore – spesso per quello meno raccapricciante
– e che sempre più di
frequente non riesce più a votare per nessuno degli attuali
contendenti, tutti partoriti
e plasmati dalle banalità e dalle volgarità
propagandate nella cosiddetta “seconda
repubblica”: cioè, a ben vedere, per il Partito
Unico Populista Italiano con le
sue componenti soft e hard in concorrenza elettorale fra loro.
A
questa Italia serve
una proposta politica esplicitamente alternativa e riconoscibilmente
contrapposta ai tre poli dell’attuale sistema politico
italiano.
Ai
tre poli populisti ormai esistenti e consolidati: del resto bipolarismo
e
bipartitismo sono messi in crisi ovunque, e non solo in Italia (ormai
perfino
in Gran Bretagna), dalla crescente complessità, e
dall’impossibilità di
comporre in uno schema bipartitico o bipolare le molteplici linee di
frattura
che attraversano oggi tutti i sistemi politici europei. Non a caso una
gran
parte di elettori italiani rifiuta, e a ragione, di farsi inquadrare
nell’attuale
continuum destra / sinistra, e, oggi
più che mai, alcune delle questioni che ai radicali e ai
liberali dovrebbero
stare più a cuore non si prestano minimamente a essere
inquadrate su quel continuum. Il
federalismo europeo è
contestato da destra in nome del nazionalismo e della xenofobia; da
sinistra in
nome dell'anticapitalismo o del protezionismo. La laicità
è
contestata da destra in nome del
clericalismo e del tradizionalismo, e da sinistra in nome del
multiculturalismo. Le liberalizzazioni sono contestate da sinistra in
nome
della residua fiducia nelle virtù maieutiche del dirigismo,
e da destra in nome
del sovranismo. Se per una volta, almeno sul superamento del continuum sinistra / destra, liberali e
radicali si trovano miracolosamente in sintonia con un orientamento
forse
addirittura maggioritario dell'elettorato italiano, perché
intestardirsi a
volersi identificare con concetti che oggi nessuno saprebbe
più neppure
definire in modo univoco o almeno largamente condiviso? Questo non
significa
necessariamente considerare tutti gli altri identici o identicamente
alieni,
significa che per essere credibile una proposta liberalradicale deve
rinascere
oggi come profondamente e riconoscibilmente diversa e alternativa a
tutto
l’esistente. E forse oggi può esserlo proprio e
solo se si qualifica come
radicalmente non populista.
L’Italia
laica e liberale
della modernità negata potrà tornare a contare su
di voi?
Per
dare voce a questa
Italia c’è bisogno di un progetto nuovo, di un
perimetro nuovo, di un personale
politico consapevole, capace di una visione forte, e non di belle facce
precocemente suonate. È un’illusione pensare che i
radicali, che se vogliono
continuare a esistere devono rinnovarsi per forza essi stessi, possano
essere
il seme e i promotori di un simile progetto? Che possano essere
nuovamente
loro, come altre volte nella loro storia, a riannodare assieme ad altri
le fila
e a sbloccare e dare voce e sostanza a un’Italia
più moderna e civile, ben più
vasta del proprio microcosmo? Altrove in Europa
qualcosa del genere è stato tentato, in qualche caso anche
con significativi successi.
Ci
si può provare anche
in Italia?
Luglio 2016
Qui un successivo intervento in materia, del giugno 2023.
I file pubblicati su questo sito da Giulio
Ercolessi sono rilasciati con licenza
Creative
Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia
License.
Diritti di utilizzo ulteriori possono essere richiesti a http://www.giulioercolessi.eu/Contatti.php.