Referendum costituzionale per dummies
di Giulio Ercolessi
Solo
l’azzeramento di
ogni cultura politica liberale e costituzionale avvenuto in questi
ultimi
decenni in Italia può spiegare perché, nel
dibattito pubblico sul
referendum costituzionale del 4 dicembre, quasi tutti –
sostenitori del NO spesso compresi – stiano perdendo di vista
quello che è probabilmente il
punto principale.
La
principale
conseguenza dell’entrata in vigore della riforma
Renzi-Verdini, in caso di
vittoria del SÌ, non sarà quel che suggerisce la
pubblicità ingannevole esibita
nel quesito ufficiale, ma la possibilità reale del venir
meno sostanziale della
rigidità delle
garanzie costituzionali delle libertà fondamentali e
di un reale
controllo di costituzionalità delle leggi.
Se
è giusto che una
maggioranza di legislatura abbia il potere di determinare
l’indirizzo politico,
di conferire o negare la fiducia al governo, di approvare o respingere
il
bilancio dello Stato, di approvare le leggi ordinarie, in una
democrazia
liberale e costituzionale le garanzie delle libertà
individuali, le regole del
gioco e l’elezione degli organi garanti devono invece essere
sottratte all’arbitrio
di una semplice maggioranza di legislatura. Questo è
l’ABC
del costituzionalismo liberale.
Il 4 dicembre si voterà, in ogni caso, a “Italicum” vigente. E, per di più, non è difficile prevedere che, in caso di vittoria del SÌ, tutte le ripetute buone intenzioni oggi espresse da un Renzi timoroso di perdere la partita referendaria saranno dimenticate all’indomani del voto: verosimilmente, si farà irresistibile la tentazione di correre immediatamente all’incasso e di massimizzare il risultato mantenendo con qualche pretesto in vigore l’“Italicum” (“Noi avremmo voluto cambiarlo, ma non abbiamo trovato il consenso, l’opposizione ha fatto ostruzionismo, ci hanno impedito di decidere ... ”) e sperando così, sull’onda del successo referendario, di cementarsi irretrattabilmente al potere per anni. Così, e sempre che Renzi vinca la sua temeraria scommessa in tale prima occasione, l’“Italicum” resterebbe anche nelle mani dei successori di Renzi, di chiunque si tratti, per anni o decenni. Tutti gli italiani dovrebbero avere imparato dall’esperienza di autorevoli compagni di partito di Renzi a non stare affatto “sereni” quando certi politicanti promettono qualcosa.
È
fin troppo evidente che la promessa di
cambiare
l’“Italicum” serve essenzialmente a
vincere il referendum. Ma, quand’anche la legge elettorale
venisse
invece cambiata, prima ancora di essere mai utilizzata, per il fondato
timore di una
possibile
vittoria grillina – dipenderà dai sondaggi: questo
è ormai il rispetto di
questa classe politica per le regole del gioco – resterebbe
che, consolidatosi
l’ormai doppio precedente secondo cui una maggioranza di
legislatura può ritagliarsi
la legge elettorale a proprio vantaggio sulla base
dell’ultimo sondaggio – l’hanno
fatto prima Berlusconi con il “Porcellum”, poi
Renzi con l’“Italicum”, e magari
domani Renzi lo farà di nuovo con la sua modifica
– l’intera forza della nuova Costituzione
finirà per dipendere interamente da una legge ordinaria,
quale è la legge
elettorale.
Fino
ad ora questo poteva essere considerato un problema soltanto teorico,
perché, dopo lo sfortunato precedente della cosiddetta
legge-truffa del 1953 e il suo fallimento, nessuna semplice maggioranza
parlamentare di legislatura si era più azzardata a
modificare unilateralmente la legge elettorale. Ora, alla
luce di questi ultimi scandalosi precedenti, che però ormai
si sono
purtroppo
consolidati, e di fronte alla frenesia costituente
dell’intera attuale indecente e incompetente classe politica
italiana,
questa diventa invece la questione cruciale. È
per questo che ormai qualunque riforma costituzionale
diventa irricevibile per
mancanza di oggetto se non comprende al suo interno la
determinazione
dei
principi di fondo della legge elettorale. Altrimenti diventa ormai del
tutto
inutile discettare se le garanzie delle libertà
costituzionali siano o meno
salvaguardate da una qualunque riforma costituzionale, dato che
l’intero
contenuto della Costituzione viene ormai a dipendere interamente da una
legge
ordinaria, liberamente manipolabile da qualunque maggioranza di
legislatura, salvi interventi della Corte costituzionale, che
dovrebbero però essere anche estremamente
tempestivi. Se nel referendum vincesse il SÌ, ci
ritroveremmo così in una situazione analoga a quella vigente
con la Costituzione
sovietica stalinista del 1936, in cui
le libertà erano solennemente
enunciate, sulla carta, ma la loro effettiva determinazione era poi
rinviata alla legge
ordinaria. Non ha infatti senso stabilire in
Costituzione maggioranze qualificate a tutela delle libertà
e delle regole di
fondo del gioco democratico, se poi quei quorum possono essere messi
alla
portata di una maggioranza parlamentare di legislatura attraverso la
manipolazione unilaterale, anche futura, della legge elettorale.
Le
costituzioni non si
approvano per un utilizzo una tantum e finché resta al
potere la maggioranza che le ha approvate. Restano in vigore per
decenni. Chiunque
arrivi al governo del paese. Una società civile minimamente
consapevole non può
mai accettare un affievolimento delle garanzie delle libertà
costituzionali e
della salvaguardia delle regole del gioco democratico. Tanto meno
può farlo in
un momento storico in cui spuntano come funghi in tutta Europa
– anche in paesi
che si potevano ritenere di più salda e radicata tradizione
liberale e
democratica dell’Italia e muniti di maggiori anticorpi
– movimenti populisti e
apertamente razzisti che
minacciano i fondamenti stessi del costituzionalismo liberale
occidentale. E
non è difficile prevedere che, se il SÌ dovesse
vincere, la strada sarà senza
ritorno, perché nessuna classe politica futura
vorrà mai spontaneamente rinunciare
ai poteri che questa controriforma le avrà messo nelle mani.
Una volta uscito
dal tubetto, nessuno sarà in grado di ricacciarvi dentro il
dentifricio.
La
conseguenza
essenziale dell’eventuale approvazione della controriforma
Renzi-Verdini sarà,
prima o poi, il più che probabile azzeramento del controllo
di costituzionalità.
In assenza di tale freno al potere politico, la politica –
qualunque politica
futura, da chiunque impersonata – avrà mano libera
sulle nostre libertà, sulle
nostre vite, sulle nostre fortune.
Oggi
i cinque giudici
costituzionali di nomina parlamentare vengono eletti dal Parlamento in
Seduta
Comune con maggioranza, alla fine, dei tre quinti. L’elezione
di semplici
soldatini di partito è resa improbabile dalla
necessità di compromessi, ed è
giusto che, in questa materia, e a differenza che per le normali
attività legislative e di governo, le cose stiano
così.
Con
la controriforma,
il Senato eletto dalla politica, espressione dei partiti e delle
Regioni (in
cui si annida, salvo eccezioni tanto più luminose quanto
più rare, la feccia della politica italiana),
anziché occuparsi soltanto, come la sua nuova natura
suggerirebbe, dei rapporti
fra Stato e autonomie territoriali, continuerà
paradossalmente a esercitare le
attribuzioni dell’attuale Senato in materia di garanzie
costituzionali.
La cosa è totalmente priva di senso e testimonia da sola
l’assoluto disinteresse degli estensori della controriforma
per la
salvaguardia delle libertà costituzionali a lungo termine.
Politicamente, il
concorso di questo nuovo Senato non costituirà un
aggravamento delle procedure necessarie a intervenire sulle garanzie
costituzionali, ma sarà un’arma in più
della maggioranza – di qualsiasi futura maggioranza
–
per svincolarsi da freni e contrappesi costituzionali, dato che
è dal 1975 che
il risultato delle elezioni regionali ha quasi sempre anticipato, o
seguito a
ruota,
i più significativi mutamenti di indirizzo generale
dell’elettorato (salve solo
le pochissime
regioni perennemente attaccate a uno dei due campi avversi:
più o meno tre per
parte su venti).
Tanto
più che, se
davvero i nuovi senatori saranno, come proprio Renzi li descrive,
essenzialmente e prima di tutto i rappresentanti dei loro territori, il
loro interesse
principale, se non esclusivo, non sarà certo quello di
difendere le libertà
costituzionali dei cittadini, ma quello di accaparrarsi la fetta
più ampia
possibile di risorse pubbliche – cioè di denari
dei contribuenti – per ridistribuirle
in autonomia ai propri elettori a scopo clientelare: in cambio,
saranno
disposti a tutto.
In
particolare, questo
Senato rappresentativo della classe politica eleggerà in
autonomia due dei
cinque giudici costituzionali di nomina parlamentare. Essendo due,
è ben
improbabile che (soprattutto) una
futura
e occasionale maggioranza populista e tendenzialmente autoritaria accetti
di essere rappresentata allo stesso livello della minoranza: se
appena i numeri lo consentiranno – e per le ragioni dette
è più che probabile che questo accada –
non
mancherà di
accaparrarseli entrambi.
La
Camera ne eleggerà
tre: uno al massimo – e probabilmente neppure uno, se la
maggioranza sarà, anche per una sola volta, una maggioranza
populista –
sarà espressione della principale
opposizione. E siamo così ad almeno quattro giudici su
cinque, se non tutti e cinque, fra
quelli di nomina
parlamentare.
Il
Presidente della
Repubblica sarà eletto, in ultima istanza, dai tre quinti
dei parlamentari
votanti (ma la maggioranza prescritta per la sua messa in stato
d’accusa
rimarrà quella attuale, cioè la mera maggioranza
assoluta, che però ora comprenderà i
senatori nominati dalla politica anziché eletti dai
cittadini). E il Presidente
della Repubblica nomina altri cinque giudici costituzionali: se la
maggioranza
di legislatura riesce a nominarsi in autonomia come Presidente un
proprio
esclusivo fiduciario, costui potrà nominare giudici
costituzionali altri cinque
soldatini di partito.
Siamo
così a nove o dieci giudici
costituzionali su quindici che potranno essere nominati direttamente o
indirettamente
dalla maggioranza di
legislatura.
Non ci sarà per quest’ultima neppure il bisogno di
assumersi la responsabilità
di modificare formalmente la Costituzione, per calpestare
libertà e diritti
individuali, perché i suoi eventuali abusi –
perfino enormemente peggiori di
quelli, tanto per fare un esempio, compiuti con
l’approvazione della legge 40
che la Corte ha smantellato – avranno ottime
probabilità di essere avallati dai suoi fiduciari nella
Corte.
L’“Italicum”
mette oggi
alla portata della maggioranza di legislatura tutte le garanzie
costituzionali.
Una possibile futura maggioranza parlamentare populista e
tendenzialmente
autoritaria, uscita vincitrice da
una sola semplice elezione politica grazie alla vittoria nel
ballottaggio, e anche se fortemente minoritaria nel primo turno,
avrà infatti la possibilità – per
esempio con
il pretesto di un’emergenza terroristica simile a quella che
ha colpito quest’anno
la Francia, o di un serio aggravamento ulteriore della crisi economica
– di
introdurre qualunque ulteriore modifica autoritaria della Costituzione
(salva
solo l’eventuale verifica referendaria). E, nella storia, a
tutti i paesi capita, prima o poi, di affidarsi a ciarlatani politici
capaci soltanto di efficaci e demagogiche campagne elettorali.
Per
nominarsi in
autonomia gli organi garanti – due terzi o quasi dei giudici
costituzionali e
il Presidente della Repubblica – basterà a una
tale maggioranza, che dovesse
vedere la luce in un qualunque momento nei prossimi decenni, trovarsi
un
Verdini qualunque. Un capitano di ventura disposto a correre in
soccorso del vincitore,
secondo
le
migliori tradizioni nazionali,
e a organizzare in
gruppo qualche decina appena di deputati frustrati nelle proprie
aspirazioni
governative o con scarse prospettive di rielezione e disposti per
questo a
cambiare casacca. Nulla di più facile, visto
l’infimo livello etico e
intellettuale in cui sta precipitando, salve eccezioni tanto
più luminose
quanto più eccezionali, la classe politica italiana
(più ancora della media,
già non esaltante, delle classi politiche occidentali di
questi ultimi
decenni).
Per
considerare quanto
realistico sia questo scenario, basti pensare che sono stati 263 i
parlamentari
che hanno cambiato appartenenza di gruppo nel corso della presente
legislatura,
pari al 27,68 % del totale. Ma i passaggi sono stati in
realtà addirittura 380,
dato che parecchi parlamentari hanno cambiato gruppo più
volte.
E
si pensi a quanto
profondamente è cambiata in soli tre anni la composizione
del Parlamento
italiano, da cui fino alle ultime elezioni politiche era totalmente
assente
quello che molti sondaggi oggi accreditano come il potenziale partito
di
maggioranza relativa, il Movimento Cinque Stelle. Mentre alla vigilia
di quelle
elezioni non pochi si illudevano che a giocare un ruolo determinante
sarebbe
stato il nuovo partito del Presidente Monti, oggi sostanzialmente
scomparso.
In
queste condizioni di
assoluta imprevedibilità e volatilità dei
comportamenti elettorali, approvare
la controriforma Renzi-Verdini significa aprire le porte, per i
prossimi
decenni, a qualsiasi imprevedibile avventura autoritaria futura, in un
momento
storico in cui l’evoluzione degli orientamenti politici
prevalenti è
assolutamente imponderabile, e in cui le tendenze autoritarie e
apertamente
razziste sono in crescita ovunque in Occidente, anche nel cuore stesso
dell’Europa occidentale.
Questa
è la vera posta
in gioco nel referendum del 4 dicembre. Non vi sarebbe comportamento
più
irresponsabile che assecondare un ceto politico che, per futili giochi
interni
di
partito, per vanità, irresponsabilità e assoluta
insipienza, sta mettendo a
repentaglio la già precaria civiltà politica
dell’Italia e degli italiani.
Di
fronte all’estrema
gravità delle conseguenze della controriforma, di tutto il
resto non varrebbe
nemmeno la pena di discutere. E tuttavia nel mio libro ho dimostrato
come
sarebbe possibile una riforma ancor più radicale, e, se lo
si ritiene necessario,
altrettanto efficace
nel garantire stabilità di legislatura, ma non suscettibile
di mettere a
repentaglio le garanzie giuridiche delle libertà
costituzionali e delle regole
del gioco.
A
essere in gioco non è il “bicameralismo
perfetto”, che sarà anche inutile, ma che, con
soluzioni diverse, si
poteva tranquillamente superare
senza mettere in pericolo le libertà costituzionali future.
Non si
tratta dei “costi
della politica”, che la controriforma Renzi-Verdini
taglierà per meno di un
euro a testa all’anno per cittadino italiano, in cambio del
diritto di voto per
il Senato (quando, con opportuni accorgimenti, si sarebbe potuto, e
senza rischi per le
libertà
costituzionali, attuare la soppressione pura e semplice del Senato).
Non si
tratta dell’efficienza delle istituzioni: la politica produce
già oggi troppe,
e non troppo poche, leggi, spesso soltanto capaci di ostacolare la vita
economica e civile dei cittadini, e nessuno sente il bisogno che si
metta a spararne di nuove a mitraglia. Quando ne ha avuto la
volontà, l’attuale
ceto politico ha approvato a spron battuto leggi che in altri paesi
avrebbero
distrutto all’istante la reputazione di chi le avesse votate;
quando non è
stata capace di approvare riforme essenziali ai cittadini per mancanza
di
coesione o di volontà politica, incapace di assumersi le
proprie
responsabilità, la
politica ha soltanto saputo riversarne la colpa sulle regole del gioco
democratico.
Quel
che è ora in gioco
è, potenzialmente, il rischio reale
dell’abolizione della democrazia liberale e
della sua sostituzione con una democratura plebiscitaria e autoritaria
ad opera
di chi, in un domani forse lontano o forse prossimo, si
troverà in mano i
poteri pressoché illimitati che questo governo vuole oggi
attribuire a se
stesso. Quel che si deve decidere è se disdettare o meno un
contratto di mutua assicurazione
sulle garanzie delle libertà individuali.
Quando
ci si propone di
cambiare qualcosa che non va, lo si può fare per il meglio o
per il peggio. La
controriforma Renzi-Verdini è, per le ragioni che si sono
dette, un drastico
peggioramento dell’esistente, e soprattutto un temerario
salto nel buio.
Di fronte alla gravità estrema e senza ritorno delle possibili conseguenze di questa controriforma, la sorte di un politicante e del suo governo diventano irrilevanti, così come assolutamente irrilevante è ogni considerazione di schieramento. Tanto più che concordare su un NO non ha in sé altro significato che condividere nient’altro, assolutamente nient’altro, che quel NO a una sconsiderata controriforma. L’argomento contrario è dei più stupidi e penosi che si possano immaginare: in ogni democrazia del mondo, quando esistono opposizioni di tendenza diversa o opposta (tipicamente, per esempio, un’opposizione di destra e una di sinistra), è da sempre la norma che entrambe le opposizioni votino contro le proposte della maggioranza – e lo è ancor più nel caso di un referendum. E lo è tanto più se la proposta è di sostituire la Costituzione vigente, cioè l’identità civile del paese, sulla base della mera decisione imposta unilateralmente dalla maggioranza governativa del momento (che, per di più, è tale solo perché eletta sulla base di una legge elettorale come il “Porcellum”, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale). Ma trarne la conseguenza che esista quindi uno schieramento unitario degli oppositori, alternativo e da comparare come tale alla maggioranza esistente, o addirittura ironizzare sulla sua più che ovvia eterogeneità, è argomento, più che demagogico o puerile, semplicemente cretino. Per decenni in Italia, contro le proposte delle maggioranze, centriste prima e di centrosinistra poi, votavano, “insieme”, i comunisti (e inizialmente i socialisti) e i neofascisti, ma nessuno si sognava per questo di sfidare il ridicolo affermando che solo per tale motivo comunisti e neofascisti costituissero, insieme, uno “schieramento” alternativo, o che, all'epoca del centro sinistra, i voti contrari alla fiducia di Pci e Pli prefigurassero una loro comune candidatura per una maggioranza alternativa.
Tanto più che Renzi e la sua maggioranza stanno lavorando certamente a proprio vantaggio nel breve o brevissimo termine, ma a vantaggio, ancor più, dei peggiori e dei pessimi che potranno arrivare anche immediatamente dopo. E le costituzioni si giudicano sul lungo termine, non nella schermaglia politica di breve periodo. Questo almeno dovrebbe fare una società civile degna del nome. Questo non può non considerare chiunque non sia sideralmente estraneo a qualunque infarinatura di cultura politica liberale.
L’Italia neonata è sopravvissuta alla morte del conte di Cavour; la Repubblica ha superato senza troppi traumi la scomparsa di De Gasperi. Se davvero Renzi dovesse persistere nel proposito di dimettersi in caso di vittoria del NO (staremo a vedere), sarà comunque ancora lui a dover proporre, da segretario del partito di maggioranza relativa, un’altra testa di turco del suo partito come Presidente del Consiglio al proprio posto. Il Presidente della Repubblica, con ogni probabilità, lo nominerà, e ci sarebbe davvero da stupirsi se l’attuale maggioranza, che verosimilmente non avrà molta voglia di andare a elezioni anticipate sull’onda di una sconfitta, non gli votasse la fiducia. Ce ne faremo una ragione. Sarà certamente meno traumatico cambiare una volta di più il Presidente del Consiglio che cambiare tremendamente in peggio i connotati alla Repubblica, mettendo addirittura a repentaglio per il futuro le garanzie delle libertà costituzionali, dei diritti umani e delle regole del gioco.
Chi teme che a prendere il posto di Renzi possa essere qualcuno terribilmente peggiore di lui – e lo teme senza gran fondamento, perché a succedergli nell’immediato sarà, caso mai, qualche suo sodale, espressione della sua stessa maggioranza parlamentare – dovrebbe piuttosto chiedersi se preferisce correre il rischio che, a partire dalla prossima legislatura, i peggiori dei peggiori possano arrivare prima o poi al governo con i poteri potenzialmente illimitati che la controriforma di Renzi metterà loro in mano, se sarà approvata nel referendum del 4 dicembre.
Come è stato autovevolmente ricordato, le costituzioni sono le regole che i cittadini si danno da sobri per ritrovarsele quando saranno ubriachi.
Ottobre-novembre 2016
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