Il secolo lungo dei liberalsocialisti
Postfazione
di Giulio Ercolessi alla raccolta di scritti “Percorsi laici.
Appunti, discorsi e pensieri sulla laicità e sui diritti
civili” di Tullio Monti (esponente e studioso della cultura
liberalsocialista italiana e già portavoce del
Coordinamento Nazionale delle Consulte per la Laicità delle
Istituzioni e fondatore della rivista Quaderni Laici), con prefazioni
di
Telmo Pievani e Gaetano Pecora e postfazioni di Monica Lanfranco e
Giulio Ercolessi, Officine Editoriali da Cleto, Cleto 2021. La versione
qui riprodotta contiene qualche ulteriore integrazione rispetto a
quella pubblicata nel volume.
Nel
2002 la rivista
“Liberal” dell’ex comunista Adornato,
rivista che noialtri liberali laici e
laicisti chiamavamo “Clerical”, conferì
il “premio Liberal” [sic] di quell’anno
niente meno che al responsabile dell’ex
Sant’Uffizio cardinale Ratzinger
(recidivi, tre anni più tardi quelli di
“Liberal” lo avrebbero conferito anche al
cardinale Ruini). Come ricorda Tullio Monti, Ratzinger avrebbe messo
lui
stesso alla berlina i suoi adulatori, nel modo più
esplicito, nella messa
celebrata per propiziare il conclave che lo avrebbe eletto papa, quando
individuò nell’illuminismo e nel liberalismo le
matrici di tutti i nemici della
sua chiesa partoriti dalla modernità.
Nulla
di nuovo sotto il
sole. Fra i sedicenti neoliberali coltivati dalla politica italiana a
suo uso e
consumo negli ultimi tre decenni, che identificano il liberalismo con
il
“moderatismo” o con il centrismo (se non con un
populismo estremista e
troglodita, pudicamente definito in Italia
“centrodestra”), è d’uso
citare, del tutto a sproposito e per lo più
palesemente senza averlo mai sfogliato o sfiorato, il Croce del Perché non possiamo non dirci
“cristiani”
(sempre rigorosamente omettendo le rigorose virgolette del titolo del
saggio di
Croce)[1],
come se corrispondesse a un «perché dobbiamo
essere tutti – o almeno fingerci –
cattolici romani», e come se fossero state meramente
contingenti e accidentali
nel fornire le ragioni di quel testo,
scritto durante la guerra,
la minaccia mortale per la civiltà europea
del paganesimo nazista e quella dell’ateismo di Stato
totalitario della Russia
comunista e staliniana. Non è
quindi
inutile ricordare non solo che, sia prima sia
dopo la pubblicazione di quel breve scritto, lo stesso Croce si era
dapprima coraggiosamente
espresso contro i Patti Lateranensi in Senato nel 1929 e poi di nuovo
contro la
loro menzione nel testo della nuova Costituzione
all’Assemblea Costituente[2],
ma soprattutto che, in un’opera di ben altro respiro e
impegno, la sua Storia d’Europa,
lo stesso Croce aveva
definito «il cattolicesimo della Chiesa di Roma la
più diretta e logica negazione
dell’idea liberale […] che tale si
sentì e si conobbe e volle recisamente porsi
fin dal primo delinearsi di quell’ideale, tale si fece e si
fa udire con alte
strida nei sillabi, nelle encicliche, nelle prediche, nelle istruzioni
dei suoi
pontefici e degli altri suoi preti, e tale (salvo fuggevoli
episodî o giuochi
di apparenze) operò sempre nella vita pratica, e
può per tal riguardo
considerarsi prototipo o forma pura di tutte le altre opposizioni e,
insieme,
quella che, col suo odio irremissibile, mette in luce il carattere
religioso,
di religiosa rivalità, del liberalismo»[3].
Ratzinger,
alla vigilia
dell’elezione papale, si sentì in dovere di
confermare questo giudizio.
Eppure
il dibattito
politico italiano di questi ultimi decenni, e sulla sua scia,
purtroppo, anche
gran parte del dibattito culturale e accademico, sembra aver
abbandonato ogni
consapevolezza storica e ogni dimensione diacronica. Sembra quasi
sconveniente
ricordare ovvietà che dovrebbero essere normale bagaglio di
qualunque cittadino
che abbia assolto l’obbligo scolastico. Come, ad esempio,
ricordare che la
Chiesa romana, nella sua storia millenaria, non è quasi mai
stata quella dei
documenti del Concilio Vaticano Secondo, o quella della scaltra
strategia
mediatica dell’attuale pontefice, che si accredita
progressista mentre la sua
diplomazia difende a spada tratta privilegi finanziari e
discriminazioni
giuridiche a carico di tutti coloro la cui natura non si conforma
all’idea di
natura della sua chiesa. O che le grandi religioni, a cominciare da
quella
cristiana, sono state, nella nostra storia, molto più spesso
fomite di guerre,
intolleranza, repressioni, roghi, terrore e torture, che non di pace,
rispetto
del dissenso o “accoglienza”. Che tutti i valori di
fondo della civiltà politica
occidentale contemporanea sono stati esplicitamente, formalmente,
ufficialmente
condannati nei documenti della Chiesa di Roma, a cominciare dal Sillabo
di Pio
IX. Che ancora nell’agosto del 1943 – non del 1643
– uno dei più eminenti
gesuiti dell’epoca, su espresso incarico della Segreteria di
Stato vaticana,
fece pressioni sul neocostituito governo Badoglio affinché
le leggi
antiebraiche non venissero interamente abrogate[4]
nel quadro dello smantellamento in corso della legislazione fascista,
perché,
se perseguitare gli ebrei non era lecito, discriminarli giuridicamente
non era
solo lecito ma doveroso, e per la Santa Sede non si sarebbe certo
dovuto rinnovare
l’oltraggio infertole con le Lettere Patenti del 1848,
l’atto che aveva dato
l’avvio al Risorgimento italiano introducendo
nell’ordinamento del Regno di
Sardegna la parità di diritti civili e politici fra ebrei,
protestanti e
cattolici[5].
È
quindi salutare che,
raccogliendo i suoi interventi di molti anni in materia di
laicità e diritti
civili, Tullio Monti abbia dato largo spazio a quelli di carattere
storico.
Oggi
in Italia si
assiste a uno strano fenomeno. Da un lato la secolarizzazione della
società
italiana procede da anni al galoppo. Non solo non
c’è il minimo segno di
retromarcia rispetto ai risultati registrati dai referendum sul
divorzio e
sull’aborto richiesti quasi mezzo secolo fa dal mondo
cattolico, che rivelarono
non solo alla Chiesa cattolica, ma soprattutto a una classe politica
imbambolata e ferma alla geografia religiosa di trent’anni
prima, una società
fattasi ormai normalmente europea Al contrario, nei loro comportamenti
quotidiani gli italiani che si conformano ai dettami e agli
insegnamenti del
cattolicesimo ufficiale sono divenuti da tempo una piccola minoranza
– anche
se, proprio con il crescere della consapevolezza di essere una
minoranza, si
tratta, sempre più, di una minoranza relativamente intensa e
attiva. E di una
minoranza ancor più esigua fra gli italiani più
giovani. Una più ampia minoranza
di italiani, d’altra parte, che appare ancora maggioritaria
nei sondaggi che implicitamente
sollecitano la risposta “virtuosa”, si considera
spesso cattolica più per
appartenenza sociale che per fede o per consapevolezza intellettuale,
ed è in
genere del tutto ignara dei fondamentali del
“proprio” credo: per sapere che
l’immacolata concezione non ha a che fare con la
verginità della Madonna, in
Italia bisogna essere o teologi o atei militanti. Questa minoranza,
però, si
muove in una società in cui il cattolicesimo è
sempre più visto come un mero indice
di appartenenza etnica, se non “razziale”, da parte
della sua crescente
componente nazionalista e xenofoba, che mima, senza più
comprenderne per nulla il
significato, alcuni gesti e rituali del cui senso ha perso ogni
consapevolezza.
D’altro
canto, la
maggioranza secolarizzata, che pure non accetterebbe, e di fatto non
accetta
quando si trova di fronte a imposizioni di tal genere, che la propria
vita personale
sia minimamente intaccata da proibizioni o limitazioni imposte dalla
politica
in omaggio alla tradizione religiosa, non è più
attraversata dall’impegno
civile che aveva alimentato le grandi battaglie laiche degli anni
Settanta del
secolo scorso promosse dai radicali, che avevano finito per imporsi a
una
classe politica in maggioranza laica sulla carta, ma del tutto
maldisposta,
finché possibile, a impegnarsi in uno scontro politico con
le gerarchie
cattoliche e con la DC. Ormai a essere propensi all’impegno
civile per un paese
più laico sembrano essere quasi soltanto gli ultimi a essere
presi direttamente
di mira nei loro diritti e nella loro dignità sociale dalla
politica cattolica
ufficiale: omosessuali e lesbiche, o l’ancor più
limitato numero dei malati cui
viene imposta la tortura di una sopravvivenza artificiale e soltanto
penosa, e
i loro familiari.
Così,
benché
consapevole, ad esempio, come Monti ricorda in queste pagine, che ormai
da più
di vent’anni una netta maggioranza di italiani risulta in
ogni sondaggio
favorevole a una legge che introduca la possibilità
dell’eutanasia anche attiva
per i malati terminali che la richiedano, il ceto politico italiano
considera
piuttosto che solo una piccola parte di quell’ampia
maggioranza di elettori orienterebbe
il proprio voto sulla base di quel che il proprio partito propone in
materia di
fine vita, mentre la pur piccola minoranza attiva dei cattolici
militanti e
ligi alle direttive della gerarchia potrebbe invece voltargli le
spalle: e
preferisce quindi lavarsene le mani, nonostante gli ultimativi
solleciti della
stessa Corte Costituzionale.
La
destra italiana – il
cosiddetto “centrodestra” – conta
addirittura di non perderci nulla a mostrarsi
più clericale e papista del Papa. Mostrando così
anche scarsissima
intelligenza: in Francia la destra estremista, da sempre cattolica
tradizionalista, ha scoperto da qualche anno che ergersi a difesa della
laicità
contro gli attacchi dei fondamentalismi di importazione ai diritti
delle donne
e della popolazione LGBT le giova più che cavalcare
posizioni oscurantiste.
Il
fatto è che la
destra italiana – la vera destra italiana, non quella che
chiamiamo Destra
Storica, che era stata in realtà la parte moderata del
progressismo
risorgimentale – è stata, nel corso della storia
unitaria del paese e delle sue
diverse fasi, sanfedista, reazionaria, restauratrice, codina,
legittimista, papista,
antimoderna,
protezionista,
nazionalista, colonialista, guerrafondaia, militarista, imperialista,
liberticida,
fascista, statolatrica, corporativa, strapaesana, ruralista, razzista,
antisemita,
filonazista, qualunquista, clericale, conservatrice, tradizionalista,
statalista, anticonflittuale, moderata, comunitarista, omofoba,
xenofoba,
eurofoba, sovranista, populista. Liberale mai. E nemmeno liberista,
al di là di rituali chiacchiere elettoralistiche, sempre
comunque limitate al
campo tributario,
e neppure queste peraltro mai seguite da atti di governo conseguenti.
Per paradossale che possa apparire agli affezionati alle retoriche
politiche novecentesche, tanto di destra quanto di sinistra, si
può anzi dire che il
solo, per quanto limitato, intervento legislativo liberista degli
ultimi anni in Italia – a
spese degli elettori altrui, ma questo è sempre il caso
–
siano state le cosiddette “lenzuolate” di Bersani,
prontamente cancellate dalla destra sedicente liberista non appena
subentrata al governo al posto del centrosinistra.
Incredibilmente,
ancora
oggi alla sinistra italiana questa destra accredita una propensione
anti-clericale
mai nutrita nell’ultimo secolo dalle sue componenti
maggioritarie, e men che
mai da quella comunista. Mentre la nega, contro ogni evidenza storica,
al mondo
liberale italiano, tanto moderato quanto progressista, autore, esso
sì, delle
“leggi eversive” del patrimonio ecclesiastico,
della laicizzazione dell’istruzione pubblica e del diritto di
famiglia
e
della deposizione dei Papi dal
trono temporale; e, in età repubblicana, in tutte le sue
componenti, assai meno riluttante del PCI a progredire sulla via dei
diritti civili legati ai processi di secolarizzazione.
Se,
a differenza di
quello italiano, il comunismo reale altrove al potere si era certo reso
responsabile di persecuzioni infami anche a carico delle religioni, il
suo
ateismo di Stato non aveva mai avuto nulla a che fare, in nessun luogo
del
mondo, con la tradizione laica e liberale di matrice illuminista.
Eppure
i liberali
immaginari che distribuiscono “premi Liberal” ai
campioni dell’oscurantismo
cattolico sono riusciti a far penetrare non solo nella ciancia
mediatica o
telematica, ma anche a più alti livelli del dibattito
culturale e accademico
una narrazione secondo cui la tradizione illuminista,
anziché matrice della più
profonda e caratterizzante identità politica
dell’Occidente liberale moderno e
contemporaneo, ne sarebbe l’antitesi, e solo la premessa di
ghigliottine e
gulag.
In
sintonia con la destra
religiosa americana, che è riuscita ad accreditare
un’immaginaria linea di
continuità religiosa fra “Padri
pellegrini” secenteschi e “Padri
fondatori”
settecenteschi, cioè, in buona sostanza, fra fondamentalisti
religiosi e
illuministi, a totale scapito della storia e
dell’identità degli uni e degli
altri, gli immaginari liberali – o, chissà poi
perché, liberals
– italiani ci ingiungono di scegliere fra “Parigi o
Filadelfia”[6],
fra una democrazia a loro dire fondata su
un’identità religiosa che
evidentemente giudicano assimilabile a quella di Pio IX e di Ruini e di
Ratzinger, e una “laicista” di matrice francese e
illuminista. Quasi che a
Filadelfia si fosse stabilita una religione di Stato anziché
il suo ripudio, e
non si fosse eretto invece lo storico “muro di
separazione” fra religione e
politica che è uno dei principali tratti distintivi della
tradizione liberale e
della modernità politica occidentale. E che, pur con
importanti differenze,
accomuna Parigi a Filadelfia, distinguendole entrambe, semmai, dai
paesi dove
si sono stipulati concordati.
Così
sarebbe da
assimilare ai nostri clericali, onirici “liberali”
del “centrodestra”, e non
sarebbe stato per nulla un vero illuminista, perfino quel Thomas
Jefferson che
accusava i preti, più o meno tutti i preti,
di essere «in ogni paese e in ogni epoca ostili alla
libertà, sempre alleati ai
despoti e pronti a favorire i loro abusi in cambio della protezione dei
propri»
e
di costituire
«una banda di
babbei e di impostori», fautori della diffusione di
«ignoranza, assurdità,
falsità, ciarlataneria e falsificazioni»[7].
Né potrebbero essere considerati illuministi gli altri
“Padri fondatori” della
democrazia americana, da Benjamin Franklin a James Madison, al massone
George
Washington, ecc.
Nella
narrazione della
destra italiana, costretta a trovare pezze d’appoggio capaci
di conferire una
qualche plausibilità culturale a un
“centrodestra” in cui dovevano trovare
posto, assieme ai sedicenti liberali, soprattutto clericali e
postfascisti,
xenofobi, omofobi ed eurofobi, e dove da ultimo a sovrastare
è la ciarlataneria
populista e sovranista, tutta la tradizione illuminista matrice della
nostra
identità politica occidentale deve essere rigettata, come da
sempre, del resto,
aveva predicato la Chiesa cattolica. Da considerare o reprobi o non
davvero precursori
dell’illuminismo Montaigne
e Locke, non davvero illuministi gli illuministi scozzesi David Hume e
Adam
Smith, non illuminista – o forse semplicemente ignorato
– l’illuminismo liberale
tedesco di Kant e di Wilhelm von Humboldt, non illuministi,
probabilmente,
Montesquieu e Condorcet. Benché costretta a rivestire panni
garantisti (magari
solo perché capo fondatore, molti subleaders e padani
ladroni erano inseguiti
da mandati di comparizione e da rinvii a giudizio), la destra italiana
doveva
occultare perfino il carattere illuminista di Verri e Beccaria, o del
codice
toscano. L’illuminismo è solo quello francese, il
solo illuminismo francese è
quello giacobino (i girondini, chissà, erano forse
democristiani ante litteram). Il
solo illuminismo
giacobino è quello di Robespierre e di Saint-Just, cui
magari si aggiunge soltanto
Voltaire, presunto precursore con il suo écrasez l’infâme.
Simbolo dell’illuminismo, la ghigliottina: proprio quella
impiegata in Italia essenzialmente
dai Borboni e – fino al 1870! – dal governo del
Papa Re. Il più coerente e genuino
erede dell’illuminismo sarebbe quindi non il liberalismo
laico occidentale, ma il
comunismo stragista e concentrazionario, leninista e stalinista.
Infiltratasi
nel
dibattito pubblico e non contrastata dalla maggior parte dei liberali e
della
sinistra democratica, in tutt’altre faccende affaccendati,
questa narrazione è
diventata così pervasiva che, ad esempio, perfino il regista
Luigi Magni,
valoroso autore di memorabili film di ambientazione risorgimentale che
avevano
accompagnato le battaglie laiche italiane degli anni Settanta, sul
finire della
sua vita sentì il bisogno di negare, in numerose interviste,
l’evidente
carattere anti-clericale (che ovviamente non significa antireligioso)
di buona
parte della propria opera. E talvolta l’ignoranza ingenerata
dalla convenienza politica
sfocia nel grottesco: trent’anni di diseducazione civica di
massa ci hanno
fatto cadere così in basso che nel giugno di
quest’anno si è sentito il
direttore di un importante quotidiano regionale, chiamato a commentare
per Rai
Storia l’anniversario del giorno – quello della
morte del conte di Cavour –
ripetere per due volte che Benito Mussolini, stipulando i Patti
Lateranensi,
avrebbe finalmente attuato il principio cavourriano “libera
Chiesa in libero
Stato” [sic].
A
sua volta, con il
pontificato di Francesco, la sinistra italiana, più ancora
delle altre nel mondo,
ha creduto di trovare una conferma di un antico suo tratto distintivo,
che
voleva il cattolicesimo, in quanto socialmente
“popolare”, naturalmente o
virtualmente progressista o alleato dei progressisti.
Nell’Italia ancora
largamente contadina dell’immediato dopoguerra, per i
comunisti italiani l’alleanza
necessaria fra classe operaia e mondo contadino si traduceva in una
testarda
ricerca, se non di un’alleanza, almeno di un’intesa
fra il futuro trono – il
partito “novello principe” – e
l’altare, cioè fra dirigenza del PCI e gerarchie
cattoliche. Di qui la continua ricerca di dialogo con il mondo e la
cultura
cattoliche ufficiali anche preconciliari, di qui il tradimento, con
l’articolo
7, perfino dell’antifascismo, di qui la sordina sempre e
sistematicamente apposta
a tutte le questioni laiche; di qui, soprattutto, la strategia del
“compromesso
storico”, varata proprio in ragione della propria assoluta
incapacità di vedere
che la deprecata modernizzazione della società italiana
– Monti sottolinea
bene l’atteggiamento costantemente antimoderno del PCI
– si era ormai portata
dietro una progressiva secolarizzazione, irreversibile e pervasiva. Di
qui, nel
1974, dopo il fallimento del tentativo di rimangiarsi la legge sul
divorzio in
Parlamento per evitare la “lacerazione” del
referendum di Fanfani (che contro
ogni evidenza e contro ogni sondaggio la dirigenza del PCI era
pressoché certa
che i divorzisti avrebbero perso), il rammarico, neppure troppo
dissimulato, di
avere “vinto troppo” e il tentativo di chiudere
lì la partita dei diritti
civili e di non parlare neppure dell’aborto. Non se ne
sarebbe proprio parlato,
se a questa scelta non si fossero ribellate in massa proprio le donne
del PCI.
Cosicché,
venuto meno
il principale pungolo esterno quando Pannella, ormai assunto senza
più
complessi il ruolo di capo carismatico di quella che era divenuta la
“comunità”
quasi-religiosa dei suoi seguaci, riconvertì per
vent’anni il PR da partito
laico dei diritti civili in partito della lotta missionaria contro la
fame nel
mondo da condursi in alleanza con il riluttante pontefice polacco[8],
di avanzamenti sulla strada dei diritti civili e
dell’autodeterminazione degli
individui non si parlò praticamente più. Gli
altri partiti laici, socialisti compresi,
non operarono mai con determinazione sufficiente a far includere tali
argomenti
nell’agenda politica.
Per
di più, crollato il
sistema politico della cosiddetta “Prima
Repubblica” e venuto meno il partito
dei cattolici, la Chiesa cattolica italiana, sotto la guida politica di
Camillo
Ruini, fu abilissima a mettere in concorrenza il centrosinistra e il
cosiddetto
centrodestra per la conquista di un “voto
cattolico” il cui crollo quantitativo
verticale sembrava all’attardata classe politica italiana
meno precipitoso – e
probabilmente in effetti lo era – di quello, ancor
più rovinoso, delle
tradizionali organizzazioni di massa della vecchia sinistra italiana.
Il
successo della mefistofelica tattica di Ruini ha anche da allora
impedito che
le questioni concernenti i diritti civili, oggi dette
“questioni etiche
controverse” potessero essere trattate, come lo erano state
il divorzio e
l’aborto, come argomenti di competenza esclusivamente
parlamentare, incapaci di
influire sulla stabilità degli esecutivi perché
estranei agli accordi di
governo e a conseguenti facili ricatti fra partiti alleati.
La
Chiesa di Francesco,
il quale, non avendo responsabilità di governo, si
può permettere di fare la
morale alla politica (magari anche su argomenti su cui noi stessi
liberali
laici e laicisti possiamo talvolta trovarci d’accordo, come
in materia di
diritti umani dei migranti), e di farlo senza mai pagar dazio, nelle
sue
enunciazioni di principio in campo economico e sociale sembra aver
guadagnato
molti punti presso la sinistra tradizionale più interessata
agli slogan, ai
“valori non negoziabili” e alla indicazione dei
fini che alla proposizione dei
mezzi e alla risoluzione empirica dei problemi. Anche qui nulla di
nuovo sotto
il sole: è da ben prima della Rerum
novarum che il cattolicesimo romano ufficiale si vuole tanto
più progressista
e sensibile in materia sociale ed economica quanto più
assume posizioni
conservatrici o reazionarie sulle libertà civili o a
proposito dell’autodeterminazione
individuale, sempre “licenziosa”, oggi come ai
tempi del Sillabo.
Oggi
il tono è
certamente mutato, non solo perché deve indirizzarsi a una
società non più maggioritariamente
religiosa e praticante, ma probabilmente anche perché almeno
parte della stessa
gerarchia sente il peso, la responsabilità e verosimilmente
il senso di colpa alimentato
ormai da posizioni dogmatiche che spesso non riescono più a
fare i conti con il
senso di umanità del nostro tempo.
Non
è un caso, come
giustamente nota a più riprese Tullio Monti, che il mondo
protestante italiano,
per secoli perseguitato dalla Chiesa romana, fin dal Risorgimento abbia
abbracciato, spesso con entusiasmo, la causa della liberalizzazione e
della
modernizzazione della società italiana – non solo
quella dell’unità – che fu
intrinseca al progetto unitario e da esso indissociabile.
Se
ci siamo quasi
sempre ritrovati a fianco dei protestanti storici italiani –
e il più delle
volte anche degli ebrei – non solo nella lotta per la
laicità delle istituzioni
e contro privilegi e discriminazioni a favore della confessione (un
tempo)
dominante, ma anche nelle battaglie per l’ampliamento delle
libertà
individuali, questo probabilmente dipende anche da un elemento
costitutivo
dell’identità cattolico-romana che la differenzia
profondamente dalle Chiese
protestanti storiche e dalla tradizione ebraica. Non si tratta solo
della
struttura ecclesiastica costituzionalmente gerarchica e autoritaria, si
tratta
anche delle fonti della religione cattolica. Mentre i protestanti
storici le
individuano nella sola Scriptura,
per
i cattolici sono fonti normative anche la Tradizione e il Magistero. Ed
è ben
diverso esercitarsi nelle sofisticate tecniche di interpretazione di
testi
vecchi di due o tremila anni alla luce di un “libero
esame”, che dover fare i
conti con secoli di interpretazioni che devono anch’esse fare
testo, e con
documenti ininterrottamente prodotti dal Magistero cattolico fino ai
giorni
nostri. Si può ben argomentare, ad esempio, che
l’antichità non conosceva
neppure il concetto di omosessualità, o che i vocaboli
ebraici o greci
utilizzati in materia spesso non sono affatto di univoco significato.
Ben
diverso è avere le mani legate dall’ininterrotta
storia di secoli di interpretazione
di quei testi e concetti da parte di interpreti gerarchicamente
investiti del
compito, che si vuole essere stati sempre assistiti dallo Spirito Santo.
È
anche per questa
ragione di fondo che la Chiesa romana, come Ratzinger autorevolmente
confermò
alla vigilia della sua elezione, è condannata a restare
nella sostanza avversaria
della modernità politica occidentale, di cui liberalismo
politico, ampia
autodeterminazione degli individui e laicità sono da tre
secoli i cardini
fondamentali.
I
materiali della
storia occidentale che hanno finito per dar loro vita possono essere
fatti
risalire quanto si vuole indietro nel tempo – filosofia
razionalistica greca,
diritto romano e common law, tradizione giudaico-cristiana, emersione
del
concetto antropologico di individuo nel tardo Medio Evo, conflitto fra
potere
politico e religioso, rottura dell’unità della
Cristianità in Occidente per
effetto della Riforma – ma a far precipitare in una nuova e
inedita forma
politica le disparate domande di riforma politica, economica,
culturale,
religiosa e civile che si agitavano nel Seicento soprattutto inglese
sono state,
in sinergia, una radice libertina e protoilluminista e alcune
– soltanto alcune
e spesso in contrasto con quelle dominanti – correnti del
dissenso protestante[9].
La
libertà, la
tolleranza e la laicità occidentali non sono neppure il
prodotto comune e
corale di tutti i nostri paesi, ma un’invenzione inglese,
olandese, americana e
francese che nel resto dell’Europa e del mondo è
stata spesso consapevolmente
introdotta come prodotto di importazione.
Così,
senza dubbio,
nell’Italia del Risorgimento, almeno nella sua componente
liberale, tanto in
quella moderata alla Cavour quanto in quella radicale alla Cattaneo,
laiche
entrambe, e figlie entrambe, dirette o indirette, dell’Europa
dei Lumi, che
guardavano entrambe dall’Europa prevalentemente protestante
di Nordovest.
Un
processo di
formazione del paese che i nazionalisti detestavano proprio per la sua
connessione strutturale con la modernizzazione e con la
libertà individuale. Al
congresso nazionalista del 1913, Alfredo Rocco criticava un processo di
nation
building che
si era basato sull’«ammirazione
per lo straniero» anziché
sull’orgogliosa rivendicazione delle prevalenti tradizioni
controriformiste, autoritarie o organiciste della storia italiana:
«Presso di
noi il movimento individualista penetrò quando non era
venuta l’affermazione
nazionale. L’individualismo trovò dunque un
ostacolo
formidabile nelle
dominazioni straniere, e per abbattere questo ostacolo dovette mirare
all’indipendenza. Nella concezione degli uomini a cui fu
dovuto il
nostro
Risorgimento, il fine fu l’idea individualista in tutte le sue
graduazioni:
l’indipendenza politica non fu che il mezzo per attuare il
liberalismo
o la
democrazia. Il nazionalismo degli uomini del nostro Risorgimento non fu
che
mezzo per attuare il liberalismo e la democrazia»[10].
La
“lunga marcia
attraverso il fascismo” di tanti intellettuali approdati al
PCI nel dopoguerra,
spregiatori anch’essi della «idea individualista in
tutte le
sue
graduazioni» e
ammiratori, piuttosto, della capacità egemonica di cui per
secoli, e fino al
secondo dopoguerra, aveva dato prova la gerarchia cattolica, trova in
questo
tipo di retroterra una sua plausibilità. Forse nessun
agiografo cattolico aveva
mai scritto un’apologia della Controriforma così
convinta e ammirata come negli
anni Settanta fece Alberto Asor Rosa[11].
Purtroppo
l’egemonia
del PCI sulla sinistra italiana non ha consentito al PSI, né
ad alcuno dei
partiti laici minori, di metterne in discussione una complessiva
tiepidezza
d’insieme in materia di laicità. Solo le
iniziative corsare, esterne al
Parlamento fino al 1976, del Partito radicale erano riuscite a far
approdare quei
temi nell’agenda politica nazionale.
Di
quell’agenda laica,
tuttora largamente aperta e largamente disertata, la raccolta degli
scritti di Tullio
Monti offre un panorama completo, utilissimo a chiunque voglia
conoscerne le
vicende passate e presenti, e anche le radici storiche della
laicità italiana: una
panoramica descritta con gli occhi di un protagonista politico, ma
anche
culturalmente avvertito, di tutte le lotte italiane per la
laicità dei nostri
anni.
Fra
le questioni laiche
aperte, in Italia come in tutti i paesi occidentali, spiccano quelle
relative
alle nuove presenze religiose in cerca di “riconoscimento
pubblico”. Materia solforosa
per le ovvie implicazioni che coinvolge e per gli altissimi rischi di
fraintendimento. Pare ovvio che ogni privilegio oggi accordato alla
religione
tradizionalmente dominante non potrà non essere esteso,
prima che non si pensi,
anche a confessioni che l’età dei Lumi e il
liberalismo democratico non hanno
avuto modo di piegare, come avvenuto con il cattolicesimo, a
più miti consigli.
Anche per questo personalmente credo si debba fin d’ora
manifestare contrarietà
a ogni cedimento, anche soltanto simbolico, a pratiche confliggenti con
i
valori etico-politici della democrazia liberale e con i principi
costituzionali, soprattutto se e quando esse mirino a condizionare il
libero
sviluppo futuro della personalità individuale dei minori,
che non possono
essere considerati nei nostri paesi come oggetti passivi da rinchiudere
nella
piena disponibilità delle famiglie e comunità di
origine[12].
Inevitabilmente
più
legate al contesto in cui furono formulate mi sembrano le
considerazioni di
Tullio Monti relative alle “occasioni mancate”
della nostra storia comune di
laici, di liberali, di radicali, di repubblicani, di socialdemocratici
e di liberalsocialisti
nell’Italia
repubblicana.
Tutti
ci siamo
rammaricati per decenni della mancata “Bad Godesberg”
del PCI. E del fatto
che a causa di quella mancata Bad Godesberg l’Italia della
cosiddetta “Prima
Repubblica” fosse rimasta per mezzo secolo priva di una
normale dialettica
democratica e di una normale possibilità di alternanza alla
guida della
politica nazionale.
Ma
sarebbe stata
davvero possibile una tale riconversione del PCI?
A
guardare le cose con
il distacco che la prospettiva storica ormai consente, direi proprio di
no.
Certo,
a partire dalla
“riprovazione” (neppure condanna)
dell’invasione della Cecoslovacchia, il PCI
cominciò a comportarsi in modo diverso da quasi tutti gli
altri partiti
comunisti del mondo. Certo, avere voluto costruire un partito di massa
anziché
il partito di quadri della tradizione leninista non poteva consentire
alla
“doppiezza” originaria di un partito che
paradossalmente si voleva
rivoluzionario e antisistema all’interno del quadro
costituzionale, e che
partecipava alla normale vita democratica del paese, di sopravvivere a
lungo
nelle menti e nelle vite di milioni di persone (di qui, solo per fare
un
esempio, la possibilità della ricordata riuscita rivolta
delle donne del PCI
contro la riluttanza della leadership a discutere di leggi
sull’aborto). Certo,
è incontestabile che di fatto i comunisti italiani, quali
che fossero state le
loro intenzioni a lungo termine, avevano contribuito, attraverso la
Resistenza
e la Costituente, alla ricostituzione dopo la dittatura di una
democrazia
liberale bene o male funzionante, e alla fine capace di integrare,
senza guerre
civili o conflitti violenti, anche consistenti minoranze antisistema: a
cominciare proprio dallo stesso PCI.
Certo, la
gran parte dell’elettorato comunista votava per quel partito
senza la minima
intenzione di contribuire a instaurare un sistema totalitario analogo a
quello
dei paesi del comunismo reale. Perché, certo, i concreti
programmi elettorali del
PCI non si distinguevano granché da quelli della maggior
parte dei partiti
socialisti e socialdemocratici dell’Europa occidentale (e
risultavano anzi meno
radicali del programma comune della sinistra francese o del
“Piano Meidner”
della socialdemocrazia svedese). Certo, lo
“strappo” geopolitico verificatosi
quando Berlinguer dichiarò di sentirsi più sicuro
rimanendo nell’alleanza
occidentale che uscendone poté sembrare il passo decisivo
che era fino ad
allora mancato.
Però
cambiare i
connotati di un corpo sociale complesso in corso d’opera, e
cambiare la cultura
e la mentalità dei suoi membri e dei suoi dirigenti,
è impresa improba,
pressoché disperata. Recriminare la mancata tempestiva
autoriforma del PCI fa
venire in mente i tentativi dell’ultima ora di mantenere in
vita il nesso statuale
austro-ungarico alla fine della Grande Guerra, cambiandone in corsa la
ragion
d’essere, da ultimo impero plurinazionale di fondazione
premoderna a nucleo di
un’unione federale democratica europea:
c’è ancor oggi qualcuno che pensa che
si sia trattato di una grande occasione mancata, e
c’è chi enfatizza la
presunta tolleranza di quell’impero – come pure di
quello ottomano, e anche di
quello romano – come il suo nucleo valoriale ed
etico-politico identitario
preminente, e ne immagina e descrive dilapidate virtualità
progressive, perfino
postmoderne (già all’epoca vanamente ipotizzate).
Tullio
Monti era ben
consapevole della natura del PCI anche quando scriveva i testi raccolti
in
questo volume. Ma l’ottimismo della volontà del
politico democratico suggeriva
a lui come a molti di noi una speranza che era probabilmente infondata,
tanto
più che, come emerse dopo il 1989, il PCI aveva continuato a
ricevere
finanziamenti dall’URSS, direttamente o indirettamente, anche
negli anni
successivi allo “strappo” di Berlinguer[13].
Era
proprio
l’imprinting, la ragione di esistenza del PCI come partito
nato quale parte
della Terza Internazionale, a fare da insormontabile ostacolo a quella
che,
agli occhi di una parte ancora considerevole dei suoi membri, sarebbe
stata una
vera mutazione genetica. Fra origini totalitarie, legami con le
dittature e
pratica socialdemocratica, la doppiezza si era evoluta (cattolicamente,
si
potrebbe dire) in complexio oppositorum,
le antiche fondamenta erano pur consumate, ma rinunciare
all’estetica e alla
retorica comuniste avrebbe rivelato tutti gli equivoci su cui si
reggeva un
consenso tanto ampio quanto precario se solo se ne fossero confessate
le ormai
psichedeliche aporie. La stessa strategia del compromesso storico non
era solo
una riproposizione della tradizionale ricerca di intesa con il
cattolicesimo
ufficiale in nome della comune avversione per la modernità
occidentale, per il suo individualismo, e per l’economia
di mercato: la partecipazione a maggioranze sostenute
dall’intero
autoproclamato “arco costituzionale”,
anziché prevalentemente dalla sola
sinistra parlamentare, era anche l’unico modo possibile di
consentire al PCI di
legittimarsi come forza di governo senza passare attraverso la sua Bad
Godesberg, senza affrontare il doloroso riconoscimento del fallimento
storico
di ogni modello e di ogni prospettiva realmente comunista, senza
destabilizzare
le basi del proprio vasto quanto eterogeneo ed equivoco consenso
politico ed
elettorale e senza mettere così a repentaglio la propria
egemonia sulla
sinistra italiana.
Altrettanto
ottimista
non poteva non essere Tullio ai tempi in cui militava nel PSI, a
proposito del
suo partito di allora, per quanto la sua fosse una militanza certamente
ben
nutrita di spirito critico.
Personalmente
non sono
mai stato un estimatore del rinnovamento craxiano, pur dopo la lunga
stagione
del “nullismo” socialista, quando, con il suo
predecessore De Martino, tutta la
funzione del PSI sembrava essersi ristretta a richiedere
l’allargamento della
maggioranza al PCI[14]:
ma, se quello era l’obiettivo principale, perché
votare per il PSI? Tanto
valeva votare direttamente per il PCI, come in effetti faceva una gran
parte
dell’elettorato genericamente di sinistra, condannando il PSI
a un ruolo quasi
marginale.
Ma
Craxi non fu il
protagonista di una rifondazione socialdemocratica o laburista del suo
partito.
Da laici non possiamo perdonargli l’ammodernamento del regime
concordatario,
che, legato al testo del 1929, stava ormai diventando indifendibile.
Né l’indurimento
criminogeno della legislazione proibizionista.
Ma
da liberale
considero ancor più disastrosa, proprio per il successo che
ha avuto e ha
ancora nel dibattito politico corrente tanto a
“destra” quanto a “sinistra”,
la
sua propensione per riforme costituzionali miranti a promuovere
l’emergere di
modelli di leadership carismatica, che, alla luce degli sviluppi degli
ultimi
decenni, ci condurrebbero in breve a Caracas o a Bogotà
più che a Parigi o a
Washington (o magari nella Washington di Trump). Purtroppo la
noncuranza per la
centralità delle garanzie giuridiche delle
libertà, dei freni e contrappesi
costituzionali e delle regole del gioco democratico, cioè
per la rigidità della
Costituzione, ha fatto scuola nell’intero sistema politico
italiano, già
predisposto di suo.
E
neppure credo vadano
apprezzati gli atteggiamenti neo-crispini che hanno caratterizzato la
politica
estera e culturale del craxismo, dalla politica africana alla
riscoperta di una
proiezione internazionale più italiana che europea, fino
all’esito stesso della
vicenda di Sigonella, che alla fine sfociò nel
favoreggiamento della fuga del
terrorista assassino (poi condannato, ma da latitante,
all’ergastolo) che aveva
non solo ordinato il sequestro della Achille Lauro, ma anche fatto
letteralmente gettare vivo in pasto agli squali un anziano paralitico
ebreo, in
risposta al suo temerario rifiuto di sottomissione.
Capisco
che scrivere di
queste vicende da osservatore esterno alla storia socialista
è ben diverso che
viverle dall’interno e scriverne nel pieno del loro svolgersi.
Mi
chiedo però se sia oggi
possibile limitare all’esperienza storica del comunismo e del
PCI la
demitizzazione delle “occasioni mancate”.
Probabilmente
si possono
dare due principali definizioni di che cosa sia stata la sinistra nella
storia
dell’Occidente contemporaneo, sempre che il concetto si possa
ancora utilizzare
con profitto ai nostri giorni, cosa di cui dubito fortemente.
Credo
che tanto il PCI
quanto il PSI pre-craxiano, quanto la vecchia nuova sinistra
postsessantottina,
avrebbero potuto concordare nel definire “sinistra”
quel che aveva le sue
radici culturali nel marxismo, le sue radici politiche nella storia del
socialismo, le sue radici sociali nel movimento operaio.
L’alternativa più
netta è ancora quella proposta già
quarant’anni fa da Paolo Flores d’Arcais:
“sinistra”, in questa versione, come
volontà di attuare e approfondire i Principi
dell’89: libertà, uguaglianza e
solidarietà[15].
Questa
seconda
definizione, ovviamente a seconda dell’interpretazione che se
ne voglia dare,
può, a differenza della prima, includere il liberalismo
progressista. Fino alla
nascita dei partiti socialisti nella seconda metà del XIX
secolo, la sinistra
era stata in effetti nient’altro che la sinistra liberale, le
cui propaggini
radicali erano dette “l’Estrema” per
antonomasia.
Fu
in nome della
soggettività delle classi subalterne – e
soprattutto delle “aristocrazie
operaie” – e sulla base di una netta opzione
economicista e palingenetica che
ebbe luogo il distacco fra liberalismo di sinistra e socialismo
democratico,
secondo un processo che, in Italia, fu molto simile, seppure in
sedicesimo, a
quello contemporaneo britannico. Economicismo e operaismo segnarono,
tanto in
Italia quanto in Gran Bretagna, la separazione fra sinistra liberale e
nascente
movimento socialista. Un processo non scevro, un po’ ovunque
in Europa, da
buone dosi di settarismo da parte socialista, tanto che, agli occhi di
molti
vecchi militanti, lo stesso settarismo estremo di chi intimava di
aderire alla
Terza Internazionale e ai suoi dogmi o quello delle scissioni di
qualche
decennio dopo poteva ragionevolmente richiamare
l’“album di famiglia”, apparire
come un ritorno alle origini, come un back to basics.
Ma
è possibile servirsi
ancora di queste categorie politiche nel XXI secolo? Personalmente non
lo
credo.
Non
c’è dubbio che le
democrazie liberali abbiano funzionato al meglio quando a confrontarsi
sono
stati partiti e schieramenti che, accettandone senza riserve il quadro
costituzionale, le libertà fondamentali, i diritti umani e
le regole del gioco,
esprimevano orientamenti più o meno esigenti e progressisti
in materia di
libertà individuali e/o soluzioni più o meno
liberiste o solidariste (efficacemente
solidariste soprattutto nel breve o brevissimo termine) in campo
economico-sociale. Le denominazioni potevano variare, ma per lo
più, almeno in Europa
occidentale, i solidaristi facevano spesso riferimento alla tradizione
socialista.
Estetica
e retorica,
però, forse perché si sforzavano di mantenere
aperta la prospettiva
palingenetica delle origini, confliggevano con le politiche reali. La
socialdemocrazia
svedese, come ricordato, elaborò il piano Meidner, che se
applicato avrebbe
portato in vent’anni quasi tutto il potere economico nelle
mani del sindacato[16];
pur
dopo il congresso rifondativo di Epinay del 1971 – un
riferimento e un mito per
tanti socialisti e radicali italiani – François
Mitterrand poteva affermare che
«chi non accetta la rottura con la società
capitalista non può stare nel
Partito socialista»[17];
nel
Partito laburista britannico fu solo in epoca blairiana, nel 1995,
all’ennesimo
tentativo e superando strenue resistenze, che fu abrogato
l’articolo 4 dello
statuto, che indicava come fine del partito la
«proprietà comune dei mezzi di
produzione, di distribuzione e di scambio e il miglior sistema
raggiungibile di
amministrazione popolare e di controllo di ogni industria e
servizio»[18].
E anche Craxi, quando volle rimarcare la sua rivendicazione di
autonomia
culturale e politica dal PCI, non pensò di rifarsi a
Bernstein, ma a Proudhon: il
sostenitore della tesi che «la proprietà
è un furto» come simbolo di un
socialismo al passo con i tempi?
La
stessa scissione di
Livorno, del resto, aveva avuto luogo non per divergenze fra la
maggioranza
massimalista del PSI e la fazione comunista sul fine ultimo da
perseguire, ma
soltanto per il rifiuto della maggioranza di mettersi agli ordini del
partito
sovietico e di espellere tutti i riformisti.
Insomma,
quel che di
buono hanno espresso i partiti socialisti e socialdemocratici nelle
democrazie
liberali, di originariamente socialista non aveva in realtà
più quasi nulla, se
non, spesso, parecchio confusionarismo. Nei casi migliori, si trattava
di
politiche liberali di sinistra: quasi sempre di politiche economiche
più
moderate di quella propugnate da un liberale tardovittoriano come
Leonard
Hobhouse[19]
o
da un teorico liberale del New Deal come John Dewey[20].
Del resto il primo successo socialista del dopoguerra –
quello dei laburisti di
Attlee nel 1945 – serviva a realizzare il piano di Welfare
progettato dal
liberale William Beveridge[21].
E
oggi l’ultimo rifugio
di quel che resta della sinistra “radicale”
occidentale è niente meno che John
Maynard Keynes, l’autore, fra l’altro, di un paio
di manifesti elettorali del
Partito Liberale Britannico, e sia pure un Keynes alquanto
stiracchiato, fino a
farne un profeta del debito illimitato non solo al fine di fronteggiare
i cicli
avversi, ma anche (e forse ancor più) in tempi di vacche
grasse. Personalmente
sono abbastanza in là con l’età, e sono
stato abbastanza precoce nei miei
interessi politici, da ricordare un tempo in cui non solo i comunisti,
ma anche
una parte significativa dei socialisti, consideravano Keynes quel
nefasto economista
liberale il cui contributo determinante aveva salvato il capitalismo
dalla sua
crisi finale dopo il ‘29, impedendo così la
nascita di una felice e globale
società socialista. All’epoca era piuttosto il
deputato liberale Baslini
(industriale farmaceutico, oltre che cofirmatario del progetto di legge
sul
divorzio) che recensiva con interesse sulla stampa di partito un testo
di
divulgazione delle tesi di Keynes scritto da un economista di quella
scuola che
era stato fra i consiglieri di John Kennedy[22].
Per
chi ha vissuto,
impegnato in politica o da spettatore, le ultime stagioni della storia
della
cosiddetta “Prima Repubblica”, il percorso di un
laico militante che abbia
pensato di trovare nel PSI di allora il luogo più adatto e
congeniale alle
proprie idee non può certo apparire sorprendente (specie in
anni in cui, come
si è ricordato, i radicali erano al traino di un Pannella
che aveva ormai
deciso di far proprio, senza più remore o complessi, il
ruolo di capo
carismatico di una comunità di seguaci più che di
leader di un partito, e
inseguiva ormai più il Papa che le battaglie laiche).
Così come è più che
comprensibile il sentimento di essere stati traditi dalla storia che la
fine
del PSI ha suscitato in molti socialisti.
Ma
il tempo trascorso
consente forse oggi di chiedersi se non sia venuto il momento di
ripensare
tutte le categorie della politica novecentesca.
C’è
da chiedersi se gli
stermini e la catastrofe umana, civile, economica, culturale,
ecologica, che hanno
segnato la storia del comunismo nel mondo ovunque abbia conquistato il
potere,
non abbiano finito per travolgere l’idea stessa di sinistra,
così come la concepiva
per più di un secolo la gran parte di coloro che vi si
riconoscevano nel nostro
Occidente, e che, in un modo o nell’altro, per quanto critici
e ostili ai
regimi comunisti, ritenevano di dovere comunque fare i conti,
nell’Europa
occidentale, con quella parte della sinistra che
dall’esperienza comunista
traeva le proprie origini e che quelle radici non voleva a nessun costo
tagliare.
“Socialismo
o
barbarie”: l’espressione di Rosa Luxemburg che
divenne lo slogan e il titolo di
un’importante rivista francese e di tanti socialisti
libertari e
antistalinisti, molti dei quali finirono poi per abbandonare anche il
marxismo,
non suona forse oggi come un controsenso, dopo che per decenni il
socialismo
realizzato è coinciso con una delle peggiori barbarie della
storia? E come può
suonare alle orecchie dei nostri attuali concittadini europei nati e
cresciuti nei
paesi che un tempo si definivano socialisti?
Dopo
tutto, qualunque
versione di socialismo in senso forte era nata, più di un
secolo e mezzo fa, e
si reggeva, e fu successivamente in mille diverse versioni riproposta,
proprio
sulla base dell’obiettivo della socializzazione dei mezzi di
produzione, da
raggiungersi magari con mezzi pacifici, magari per via democratica,
magari solo
nel lungo termine. Ma questo alla fine altro non avrebbe potuto
significare che
la concentrazione nelle stesse mani, cioè nelle mani della
classe politica, del
potere politico – quindi del monopolio della forza
– del potere economico e del
potere sui media. A meno di non nutrire una concezione così
ingenua della
democrazia da essere ridicolizzata dall’esperienza storica di
più di due
secoli, e pur con tutte le più buone intenzioni, sarebbe
dunque mai potuto esistere
un socialismo in senso forte che non avesse una vocazione totalitaria?
La
questione può forse suonare
nominalistica, ma la stessa idea di liberalsocialismo ha davvero ancora
un
senso nel XXI secolo, se deve davvero essere una sintesi, e non
già la mera
presa in carico da parte della democrazia liberale delle
“ragioni del
socialismo”, come recitava parte del titolo di un vecchio
testo di Guido
Calogero[23]?
E le risposte oggi necessarie possono avere ancora qualcosa a che fare
con le risposte
storiche dei socialismi, per quanto ibridate, mediate e fecondate dalla
tradizione liberale?
Il
fatto è che, pur in
assenza di svolte evenemenziali come lo fu per noi il ’45
– o la metà degli
anni Settanta per gli altri paesi dell’Europa mediterranea, o
l’89 per l’Europa
centrorientale – oggi sono cambiati almeno tre dati
fondamentali rispetto ai
tempi delle “trenta gloriose” annate in cui le
culture politiche novecentesche
avevano dato il meglio di sé: i mutamenti tecnologici, la
mutata demografia
delle nostre società, e la globalizzazione con
l’interdipendenza che ne deriva.
Di
questi tre vincoli e
mutamenti epocali, i primi due non sono nella disponibilità
dei decisori
politici. Quand’anche lo si volesse, non è mai
accaduto nella storia che la
politica abbia potuto arrestare o invertire una rivoluzione tecnologica
o
invertire drasticamente una dinamica demografica in atto (e ben
radicata
anch’essa in mutamenti culturali e tecnologici di lungo
periodo; e che, se
anche si modificasse, non produrrebbe conseguenze che nel lungo
termine). Le
nuove tecnologie hanno rivoluzionato l’intero nostro modo di
vivere e perfino
le nostre vite private, ed è assurdo pretendere che questa
rivoluzione non
coinvolga in pieno anche il mondo della produzione e del lavoro.
Ciò ha
comportato e comporta un’inevitabile tendenza
all’individualizzazione dei
rapporti di lavoro, e quindi un correlativo indebolimento degli
strumenti
novecenteschi di tutela del lavoro dipendente attraverso le pratiche
sindacali
tradizionali. E i mutamenti demografici non consentono più
lo stesso tipo di
finanziamento del Welfare che poteva funzionare così
virtuosamente nel
Novecento.
Anche
il conflitto
sociale ha perso buona parte della funzione cui aveva assolto nella
società
industriale, perché anche la globalizzazione è un
processo pressoché
impossibile da invertire; può essere ostacolato o
rallentato, ma non è lecito
ignorare né che l’interdipendenza ci ha liberati
da quarant’anni di terrore
nucleare globale e dalla minaccia di annientamento
dell’umanità (che avrebbe
anche potuto essere la mera conseguenza di tecnologie fallaci o di
errori di
valutazione – e ci siamo andati molto vicino almeno tre
volte, a quanto se ne
sa), né che la mondializzazione, se ha colpito (soprattutto)
le economie meno
dinamiche dei paesi ricchi, ha innescato processi di sviluppo certo
molto
diseguali, ma capaci di produrre un trasferimento di ricchezza e di
potere, dal
Nord ad almeno alcune vastissime regioni del Sud del mondo, di
dimensioni
gigantesche, che nessun programma di aiuto allo sviluppo pianificato
dalla
politica si sarebbe mai potuto sognare di realizzare neppure in minima
parte. E
non era forse questo quel che i progressisti di ogni tendenza avevano
vanamente
richiesto e perorato nel mezzo secolo precedente?
Vero
è che mutamenti
tecnologici, mutata demografia e globalizzazione hanno finito per
esautorare i
sistemi politici dei vecchi Stati-nazione e per destabilizzare quelle
classi
medie occidentali che sono state nei tempi migliori il pilastro delle
nostre
democrazie, e nei tempi peggiori i soggetti della disaffezione e della
rivolta
contro la democrazia liberale.
Per
di più, accanto al cleavage
socioeconomico
principale della politica novecentesca – e dando vita con
questo e fra di loro
alle più diverse e inattese combinazioni – altri cleavages,
spesso non meno
rilevanti, oggi concorrono sempre più a determinare il
posizionamento politico
e l’identità di individui e gruppi: autoritarismo,
proibizionismo e
tradizionalismo versus laicismo, libertarismo e
politiche dei diritti;
etnocentrismo e sovranismo versus cosmopolitismo e
globalismo;
centralismo versus autonomismo; industrialismo a
oltranza versus
ambientalismo; comunitarismi versus universalismo
giuridico liberale. Tanto in
linea teorica che all’atto pratico,
tali sostanziali
linee di frattura non si prestano per nulla a essere ricondotte ad
alcun
coerente o semplificato posizionamento sul continuum
destra / sinistra.
Questa
inutilizzabilità
delle categorie otto-novecentesche nel mutato contesto storico rende
problematica l’assunzione di ricette simili a quelle del
nostro passato come
strumenti per la realizzazione nel presente dei principi e dei valori
etico-politici del liberalismo (libero sviluppo della
personalità individuale e
empowerment
di ciascun individuo, massimizzazione delle sue libertà e
capacità di
autodeterminazione, e limitazione dei poteri legali e di fatto capaci
di
contrastarli) o di quelli perequativi della socialdemocrazia, dei quali
il
liberalsocialismo voleva essere la sintesi.
Come
se non bastasse,
quel che rende sempre più precaria la stessa sopravvivenza
non solo del
liberalismo progressista, ma di ogni liberalismo, e delle stesse
istituzioni della
democrazia liberale in tutti i nostri paesi è il progressivo
declino della
qualità del ceto politico, fenomeno ormai strutturale,
strettamente legato anch’esso ai mutamenti tecnologici, in
atto ovunque da tempo,
e certamente destinato ad aggravarsi nel prossimo futuro.
La
narrazione populista,
oggi ovunque prevalente, impone di offrire a ogni tornata elettorale
promesse
tanto di rapida ed efficace risoluzione di ogni problema, quanto di
prossimità
e di omogeneità antropologica fra elettori ed eletti:
promesse che sono
totalmente impossibili da mantenere, e per di più
massimamente incompatibili
fra loro. La riduzione della competizione politica a questione di
marketing
pubblicitario produce lo sviluppo nel ceto politico di competenze e
professionalità necessarie a vincere le elezioni ma che
nulla hanno più a che
fare con la capacità di governare o di controllare
efficacemente dall’opposizione
l’attività di governo. Se una certa dose di
demagogia è sempre stata presente e
inevitabilmente inerente a ogni esperienza democratica, oggi le
qualità
maggiormente apprezzate e premiate dagli elettori di molti paesi nei
candidati
alle cariche pubbliche sembrano essere, sempre più e sempre
più frequentemente,
l’improntitudine e la ciarlataneria. La stessa incompetenza
politica, economica
o costituzionale, sempre meno dissimulata, viene sempre più
spesso percepita da
molti elettori come garanzia di prossimità con il proprio
sentire e come segno
di schiettezza e di autenticità personali.
Specie
una volta venute
meno le scorciatoie cognitive rappresentate per decenni dai partiti
politici
tradizionali e dai loro simboli elettorali, società
democratiche complesse
richiederebbero elettori sempre più competenti, o almeno
capaci di individuare
le competenze dei rappresentanti eletti, e sempre più
formati all’esercizio
della politica democratica. Al contrario, per l’effetto
congiunto della
segmentazione dell’arena politica determinata dai nuovi
media, e del trionfo
nei nostri sistemi formativi, e anche nell’alta cultura, di
quella “barbarie
dello specialismo” profeticamente diagnosticata da
José Ortega y Gasset già
nell’Europa degli anni Trenta, gli elettori non solo appaiono
sempre meno
educati e formati all’esercizio della democrazia, ma tendono
sempre più a
rifiutare l’idea stessa di non essere in grado di comprendere
la complessità
dei processi sociali. Una complessità che viene negata in
radice, quasi fosse
essa stessa un inganno architettato ad arte dalle élites
dominanti, o semplicemente competenti.
Tendono
così sempre più
a prevalere gli ignoranti veri, quelli cioè che non sanno e
non sospettano minimamente
di esserlo e di non essere quindi in grado di esprimere scelte
elettorali e
politiche consapevoli: quelli che rifiutano l’idea di aver
bisogno di acquisire
sempre nuove competenze per potersi orientare nelle
complessità del mondo
contemporaneo, e, ancor più, di avere bisogno di entrare in
possesso di una
griglia interpretativa personale coerente e strutturata entro cui
collocare le sempre
nuove informazioni e competenze che sarebbero necessarie.
Si
è giocato abbastanza
irresponsabilmente con l’intrinseca polisemia del termine
“ideologia”, senza
che il più delle volte nemmeno da parte dell’alta
cultura si sia cercato di
fare chiarezza in merito. Così il tramonto delle ideologie
totalitarie
novecentesche, salutato con entusiasmo come “tramonto delle
ideologie” tout court,
è coinciso con il venir meno
di ogni cultura politica –
anzi, con la legittimazione pubblica della cancellazione di ogni
cultura politica –
e
ha finito per travolgere anche i fondamenti
dei
sistemi politici e costituzionali liberali e democratici, nella
consapevolezza
tanto degli elettori, quanto dei media e degli eletti.
Come
se ciò non
bastasse, in un tale contesto la diffusione e l’efficacia
decisiva del negative
campaigning,
fondato o infondato che possa essere, come
arma ordinaria di propaganda elettorale, tanto più abituale
quanto più la
contesa politica tende a personalizzarsi, produce una selezione alla
rovescia
degli stessi potenziali candidati: chi
tiene alla
propria reputazione, o semplicemente ne ha una, tende sempre
più a tenersi
lontano dalla politica, lasciando così sempre più
campo libero a nullità,
ciarlatani, faccendieri e manigoldi. Talvolta a pirotecnici balordi,
che assurgono al rango di stelle dello showbiz.
Per di più, come conseguenza delle massicce campagne “anti-casta” – fenomeno anche questo iniziato in Italia prima che altrove, e qui più sviluppato, e certo con ottime ragioni – diverrà sempre più forte la tendenza verso una progressiva diminuzione degli emolumenti e dei benefit materiali e immateriali e verso una generalizzata diffidenza – spesso una vera presunzione di disonestà – a carico di ogni attore politico, e a un controllo sempre più invasivo sulla vita anche privata dei politici.
E non può esistere alcun
settore della vita
sociale in cui,
indipendentemente da meriti e demeriti individuali, il cumulo di
svantaggi
reputazionali crescenti con la prospettiva di una sensibile diminuzione
delle
retribuzioni e di un relativo peggioramento della qualità
della vita degli
addetti possa mai ragionevolmente portare a un miglioramento della
qualità media
del personale.
Naturalmente
esisteranno sempre le eroiche eccezioni individuali, così
come esistono
valorosi medici che rinunciano a prestigiose carriere e lavorano gratis
e in
condizioni ambientali spaventose per solidarietà con i
più poveri del mondo, ma
non è certo su eccezioni analoghe a queste che potremmo
pensare di fondare
migliori sistemi politici o migliori sistemi sanitari.
Se
di questo progressivo peggioramento della media qualità
intellettuale ed etica del
ceto politico possiamo quindi essere purtroppo certi –
già oggi si può dire che
quasi tutti i migliori politici italiani degli ultimi decenni sono
stati quelli
non eletti dal popolo – non è lecito nascondersi
le conseguenze che questa vera
e propria sciagura, questa generalizzata fuga dei migliori
dall’impegno
politico, non potrà non avere, anche, e in modo
particolare, su ogni
teoria politica che sostenga l’utilità di un forte
governo della politica
sull’economia e dell’attribuzione di
un’ampia discrezionalità in materia ai
decisori politici.
Si
potrà infatti essere quanto si vuole favorevoli a un ruolo
determinante dello
Stato nell’economia, e si potrà essere quanto si
vuole critici del liberismo
moderato o “selvaggio”; ma se poi si guardano le
facce, si ascoltano i
discorsi, si leggono i post e si esaminano le biografie dei concreti
personaggi
politici, dei potenziali gestori e decisori pubblici delle scelte
economiche
che si vorrebbero affidare allo Stato o alle istituzioni pubbliche,
spesso si
dovrà concludere che, a tali condizioni, è meglio
lasciar perdere: ci sarebbe
perfino di che essere tentati dalle più grossolane e
semplicistiche
teorizzazioni sullo “Stato minimo”, visto che da
questa gente non ci si potrà
attendere che sfrenata demagogia, corruzione, malaffare, sperperi, o
quanto
meno clientelismo e campanilismo scatenati a spese dei denari dei
contribuenti.
Con l’attuale classe politica, e ancor più con
quella che si prospetta,
“gestione pubblica” sarà sempre meno,
inevitabilmente, sinonimo di promozione
dell’interesse pubblico. Soprattutto delle conseguenze a
lungo
termine delle proprie scelte questa classe politica si
disinteressarà sempre di più. Farà
solo quel che
le servirà per vincere le elezioni, facilmente
dissesterà
le finanze, e lucrerà anche successivamente sui costi e il
peso
del necessario risanamento ad opera dei propri successori, che
accuserà di essere sanguisughe, guadagnandosi facili
rivincite
grazie a elettori senza alcuna memoria o mappa intellettuale di
riferimento.
Sarà
proprio la questione della qualità infima dei potenziali
decisori, credo, a decretare
l’impraticabilità di ogni politica socialista, non
solo in senso forte, ma
anche in senso lato.
Se,
specie per chi aveva riposto qualche speranza nelle promesse di
palingenesi nate
con l’Ottobre sovietico, il XX secolo è stato il
“secolo breve”, credo si possa
dire che anche il “secolo lungo” dei
liberalsocialisti e dei loro ascendenti,
discendenti e parenti prossimi – che per l’Italia
potremmo forse far cominciare
emblematicamente dal “Patto di Roma” del 1890 fra
liberalradicali,
repubblicani e nascente movimento socialista – stia ormai
volgendo al termine,
travolto dalla crisi della stessa democrazia liberale, che nulla
può illustrare
meglio dell’insurrezione del 6 gennaio 2021 contro il
Campidoglio di
Washington.
Così
la promessa di prosperità senza libertà propria
del modello cinese, che già
comincia a espandere, anche nei nostri paesi, non solo la sua forza
economica,
ma anche un suo soft power[24],
si rafforza in sinergia con la ciarlataneria
populista e sovranista autoctona, e forse si salderà, prima
che non si pensi,
con un’involuzione autoritaria globale che, con la nostra
attuale ottusa
inerzia in materia di protezione dell’ambiente e di contrasto
al cambiamento
climatico, ci stiamo preparando in questi decenni per un futuro
prossimo,
quando comincerà a circolare e a rafforzarsi la tesi che la
situazione del
pianeta è ormai così compromessa da non poter
più essere invertita con metodi
democratici.
Si
tratta, purtroppo,
di uno sviluppo che mi sembra facile prevedere, quando
salirà al potere una
classe politica largamente rappresentativa degli umori diffusi negli
attuali
movimenti giovanili, come quelli del passato vezzeggiatissimi dai media
tradizionali, ed educati dai nuovi media alla mancanza di confronto con
ogni
sensibilità politica diversa e a uno stile politico fondato
sulla retorica
delle domande “non negoziabili”: è
purtroppo abbastanza facile prevedere che,
posta di fronte ai sempre più frequenti eventi catastrofici,
determinati dal
previsto continuo deterioramento della situazione climatica globale
frutto
dall’attuale inerzia, quella classe politica, in cui decenni
di egemonia
populista avranno sradicato ogni interesse per le garanzie giuridiche
delle
libertà
individuali, per il diritto alla riservatezza e per la
sacralità delle regole
del gioco proprie della civiltà liberale, non
esiterà a ricorrere, e
probabilmente con il consenso dei più, a nuove e inattese
forme di
autoritarismo “democratico”.
In
ogni caso, per i liberali di tutte le tendenze il programma massimo
tornerà probabilmente
a essere, come alle origini, e come in paesi che ritenevamo
più sfortunati,
nient’altro che la difesa delle più elementari
regole del gioco e la protezione
degli individui dall’arbitrio autoritario dei governanti e
dall’oppressione
politica, dai suoi animal
spirits,
più insidiosi
di quelli dell’economia perché armati del
monopolio della forza.
Forse
non è soltanto il “secolo lungo” del
liberalismo progressista a essere giunto a
conclusione, forse si
sta chiudendo anche il ciclo
iniziato nell’89. Non nel 1989, con il crollo del comunismo,
e forse neppure
nel 1789, con la caduta dell’Ancien Régime, ma nel
1689, con la Gloriosa
Rivoluzione che abbatté l’assolutismo in
Inghilterra, dando vita al primo,
ancora incerto, esperimento protoliberale moderno. È a un
conato di ripudio
della civiltà occidentale moderna nata dal liberalismo e
dall’illuminismo che
stiamo assistendo.
Come
altre volte nella
sua storia, l’Italia, talvolta a torto ritenuta una landa
politicamente
arretrata, si è trovata all’avanguardia e a fare
da apripista a questa nuova
regressione comune. Come un secolo fa, aperta dall’Italia la
via della
regressione, altri già l’hanno superata anche su
questa nuova strada
autoritaria.
C’è una sola nota parzialmente ottimistica con cui me la sento di concludere queste riflessioni fortemente stimolate dalla raccolta dei contributi scritti da Tullio Monti in anni di militanza politica e culturale laica e liberalsocialista: la storia ha sempre più fantasia di chi pensa di poterla prevedere e riserva sempre sorprese e sviluppi imprevedibili. Non sempre tutti negativi come oggi sembrerebbe suggerire un onesto pessimismo della ragione.
Ottobre 2021
[1]
Benedetto Croce,
Perché non possiamo non dirci
“cristiani”,
in Id. La mia filosofia (ed. or.
1949), a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 1993, pp.38ss.
[2]
Gli atti della Costituente sull’art.
7,
a cura di Aldo Capitini e Piero Lacaita, Manduria-Perugia, Lacaita,
1959, pp.
37ss. e 216-7.
[3]
Benedetto Croce, Storia d’Europa nel
secolo decimonono, Bari, Laterza, 1965 (ed. or. 1932), p.22.
[4]
La vicenda è
davvero istruttiva e meriterebbe di essere ben conosciuta. Il padre
gesuita Pietro
Tacchi Venturi era stato grande tessitore della
“conciliazione” fra Papato e
Italia fascista, e fu poi imposto a Gentile nella redazione
dell’Enciclopedia Italiana
come ufficioso controllore cattolico. Concordò con il
cardinale Segretario di
Stato vaticano Luigi Maglione di chiedere al neocostituito governo
Badoglio che
le leggi antiebraiche venissero modificate solo limitatamente alle
disposizioni
che discriminavano anche gli ebrei convertiti al cattolicesimo. Pur
contattato
da un gruppo di ebrei terrorizzati dal prevedibile arrivo delle truppe
naziste,
che lo aveva implorato di favorire un passo del Vaticano che facesse
presente
al governo italiano il sostegno della Santa Sede al ripristino della
«legislazione
introdotta dai regimi liberali e rimasta in vigore fino al novembre
1938»,
Tacchi Venturi scrisse il 29 agosto 1943 al cardinale Maglione di avere
respinto tali suppliche: «Mi limitai, come dovevo, ai soli
tre punti precisati
nel venerato foglio di Vostra Eminenza del 18 agosto [concernenti, come
detto,
la discriminazione degli ebrei convertiti al cattolicesimo] guardandomi
bene
dal pure accennare alla totale abrogazione di una legge [cioè
delle leggi
razziali] la quale secondo i principii e le tradizioni della
Chiesa
cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma ne
contiene pure altre
meritevoli di conferma». Corsivo mio. La lettera,
parte del materiale sul
pontificato di Pio XII meritoriamente reso pubblico dagli stessi
Archivi
Vaticani, è citata, fra gli altri, da Giovanni Miccoli, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo fra
Otto e Novecento,
in Storia d’Italia, Annali 11,
vol.
2, Einaudi, Torino 2000, p.1558, nota 497.
[5]
Personalmente
credo che sia perfino infondata, quanto meno nella sua versione
più netta e pur
largamente diffusa, la tesi che vuole l’antigiudaismo
religioso e tradizionale
della Chiesa cattolica nettamente distinto e perfino contrapposto
all’antisemitismo, il quale troverebbe invece le sue origini
soltanto nello
scientismo positivistico, maligno e conseguente frutto avvelenato
dell’età dei
Lumi. Troppo comodo. Fu nella Spagna dei “più
cattolici fra i sovrani”,
all’indomani della Reconquista,
che fu
elaborata la teoria della limpieza de
sangre – letteralmente: purità del
sangue – quale criterio di
discriminazione giuridica fra i sudditi, a discapito dei discendenti
degli
ebrei, pur convertiti, e pur non individualmente sospettati di essersi
mantenuti in segreto fedeli alla religione dei padri. Il fatto che nel
XVI
secolo non fosse possibile vantare pezze d’appoggio
“scientifiche” a sostegno
di tali discriminazioni non era di ostacolo al principio che la
discendenza di
sangue, e non il credo religioso, dovesse essere la causa di uno status
giuridico inferiore e subalterno, minuziosamente regolato. Cfr. Juan
Hernández
Franco, Sangre limpia, sangre
española.
El debate de los estatutos de limpieza (siglos XV-XVII),
Madrid, Cátedra,
2011.
[6]
AAVV
Parigi o Filadelfia? Un confronto decisivo per
il futuro dell’Europa, Roma,
Fondazione Liberal,
2000.
[7]
Cit. in Isaak Kramnick, R. Laurence Moore, The Godless Constitution. The Case against
Religious Correctness, New York / London, Norton, 1997, pp.
98-99,
traduzione
mia.
[8]
Marco Pannella, Dai diritti civili alla fame
nel mondo,
a cura di Angiolo Bandinelli, Roma, Quaderni Radicali, 1981.
[9]
Modernità, politica e
protestantesimo, a
cura di Elena Bein Ricco, Torino, Claudiana, 1994; Pietro Adamo, La libertà dei santi. Fallibilismo e
tolleranza nella Rivoluzione inglese 1640-1649, Milano,
Angeli, 1998; Il potere e la gloria. La
Gloriosa
Rivoluzione del 1688, a cura di Giorgio Vola, Pisa,
Nistri-Lischi, 1993; John
Witte Jr., The Reformation of Rights.
Law, Religion and Human Rights in Early Modern Calvinism,
Cambridge
University Press, Cambridge, 2007; AA.VV. Genèse
et enjeux de la laïcité, a cura di Hubert
Bost, Genève, Labor et Fides,
1990.
[10]
Cit.
in Silvio
Lanaro, L'Italia nuova. Identità e
sviluppo 1861-1988, Torino, Einaudi, 1988, p.218.
[11]
Alberto Asor Rosa,
La cultura della Controriforma,
Bari,
Laterza, 1974.
[12]
Trovo molto
condivisibili l’inquadramento generale e le osservazioni
puntuali contenuti nel
volume di Cinzia Sciuto, Non
c’è fede che
tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo, Milano,
Feltrinelli,
2018.
[13]
Gianni Cervetti,
L’Oro di Mosca. La verità
sui
finanziamenti sovietici al PCI raccontata dal diretto protagonista,
Milano,
Dalai, 1999; Gianni Corbi, L'
oro di Mosca e quello delle coop,
La
Repubblica, 8 agosto 1998.
[14]
Non a caso, i
singoli esponenti del PSI all’epoca più
marcatamente impegnati a sostegno delle
battaglie laiche e per i diritti civili appartenevano quasi sempre alle
correnti di minoranza: tanto a quella autonomista che a quella
manciniana o
alla sinistra.
[15] Paolo Flores d’Arcais, Servitù ideologiche o liberi valori, in AAVV Il concetto di sinistra, Milano, Bompiani, 1982.
[16]
Rudolf Meidner, Il
prezzo dell'uguaglianza. Piano di
riforma della proprietà
industriale in Svezia, Cosenza, Lerici, 1976.
[17]
«Celui qui n’accepte pas la rupture,
celui qui ne consent
pas à la rupture avec l’ordre établi,
politique, cela va de soi, avec la
société capitaliste, celui-là, je le
dis, il ne peut pas être adhérent du Parti
socialiste». Cit. in Jean-François Huchet, Rupture et force
tranquille, Lettre n°21, Institut
François Mitterrand, 24 settembre
2007.
[18]
Aisha Gani, Clause
IV: a brief
history,
The Guardian, 9 agosto 2015.
[19]
Leonard T.
Hobhouse, Liberalismo, Firenze,
Sansoni, 1973 (ed. or. 1911).
[20]
John Dewey, Liberalismo e azione sociale,
Firenze,
La Nuova Italia, 1971 (ed. or. 1935).
[21]
William
Beveridge, Why I am a Liberal,
London, Jenkins, 1945. Significativa la variazione che sentì
il bisogno di
apportare al titolo l’editore italiano del 1947: William
Beveridge, Perché e come sono
liberale, Milano, Rizzoli,
1947.
[22]
Walter Heller, Nuove dimensioni
dell’economia politica,
prefazione di Guido Carli, introduzione di Francesco Forte, Torino,
Einaudi,
1968.
[23]
Guido Calogero, Le regole della democrazia e
le ragioni del
socialismo, Roma, Ateneo, 1968.
[24]
Jean François
Billeter, Pourquoi l’Europe.
Réflexions
d’un sinologue, Paris, Allia, 2020.
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